“Restituisco quanto indebitamente sottratto dal vostro sito archeologico. Sentitamente dispiaciuto per il furto da voi subito, porgo le mie scuse”. Una busta con una lettera, breve, e tre tessere di uno dei mosaici di Tharros. Un sito archeologico della provincia di Oristano, nel comune di Cabras, in Sardegna. Il mittente, un parente del turista torinese che alcuni decenni fa visitando l’area archeologica non ha resistito all’impulso di portarsi via un souvenir. Parente che, dopo la morte del congiunto, ha ritrovato tra i suoi effetti personali le tessere e a quel punto ha deciso di restituire il maltolto, inviandolo alla biglietteria del sito archeologico.

Un bel gesto, indubitabilmente. Uno spot per sottolineare che le aree archeologiche non sono supermarket nei quali recarsi per prendere qualcosa, indebitamente. Una storia per ribadire che il ricordo di una visita a un luogo speciale non deve passare attraverso la sottrazione.

Le persone spesso sono attratte dall’idea di portarsi via un pezzetto della loro esperienza concreta, di quel che hanno osservato, di quel che li ha allietati, visita oppure vacanza. Frammenti di materiali archeologici oppure un sacchetto di sabbia. Le persone spesso confondono il ricordo con il possesso, ricorrono al secondo immaginando che questo possa consolidare il primo. Ma non è così, ovviamente.

Ma a prescindere da tutto le tessere restituite costituiscono una significativa testimonianza che il senso civico esiste, ancora, che il rispetto per i beni comuni non è stato sepolto dagli egoismi, piccoli e grandi. Questa, credo, sia la notizia: che il disinteresse per quel che ci circonda non ha sopravanzato l’interesse, condiviso, insomma che non tutto è perduto.

Confesso però che quel che ho trovato davvero bello in questa storia sono le scuse finali e le modalità con le quali il coscienzioso parente ha cercato di fare ammenda dello sbaglio del congiunto. In quel “porgo le mie scuse”, ho ritrovato qualcosa che ormai sa di antico, di desueto, di passato di moda, addirittura di risibile: chiedere scusa. A seconda delle circostanze, di una parola fuori posto oppure di un comportamento sopra le righe. Chiedere scusa di qualcosa che sarebbe stato meglio non fare oppure non dire.

Accade infrequentemente, da tempo, che qualcuno lo faccia al punto che ci si è quasi disabituati all’usanza, ed è un peccato. Perché le scuse non sono un tardivo tentativo di sanare un piccolo-grande abuso perpetrato ai danni di qualcun altro, ma anche di qualche altra cosa. Piuttosto è una confessione. Seguita da un braccio alzato, oppure un inchino, deferente.

Lo sbaglio è perlopiù accettabile. La mancanza di un suo consapevole riconoscimento e quindi, le scuse, non lo sono, mai. Per questo ho grande ammirazione nei confronti di chi lo fa, di chi porge le sue scuse, magari a nome di qualcun altro. Proprio come accade nella storia delle tessere di mosaico. Il mondo continuerà a cambiare e quel che è, non sarà, inevitabilmente. Ma le “buone maniere” dovrebbero continuare ad essere esercitate. A prescindere.

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