Lavoro & Precari

Stipendi, i nuovi dati Ocse: nel 2021 inversione di tendenza, ma in 30 anni sono saliti solo dello 0,3%. Nonostante la volata del pil l’Italia resta ultima

VERSO IL VOTO - Dopo il calo registrato nel trentennio 1990-2020, il 2021 ha fatto segnare un recupero. Ma i salari annuali medi sono saliti pochissimo rispetto agli aumenti di cui hanno goduto i lavoratori tedeschi e francesi (+33%), dell'Est Europa (+134% in Slovacchia, +120% in Repubblica ceca, +292% in Lituania), inglesi (+50,5%) e statunitensi (+52%). È in questo quadro che vanno inserite le proposte dei partiti su salario minimo e - più o meno fantasiose - detassazioni straordinarie per garantire "una mensilità in più" ai dipendenti

Il 2021, grazie al recupero post Covid, ha segnato un’inversione di tendenza. L’Italia non è più l’unico Paese Ocse in cui i salari annuali medi negli ultimi 30 anni invece di crescere sono calati, dato che ha fatto molto discutere quando il rialzo dell’inflazione ha iniziato a erodere il potere d’acquisto dei dipendenti. Ma le buone notizie si fermano qui. Ilfattoquotidiano.it ha esaminato le tabelle dell’organizzazione parigina aggiornate a giugno: mostrano che nell’anno in cui il pil è rimbalzato di più del 6% lo stipendio medio italiano si è attestato a 29.694 euro contro i 29.588 del 1991 (si tratta di valori a parità di potere di acquisto per tener conto della variazione dei prezzi). Dunque un incremento c’è stato, ma si è fermato allo 0,3%: infinitesimale rispetto agli aumenti di cui hanno goduto i lavoratori tedeschi, francesi e inglesi per non parlare di quelli dell’Est Europa e degli statunitensi. È in questo quadro che andrebbero inserite le proposte dei partiti in tema di salario minimo o di – più o meno fantasiose – detassazioni straordinarie mirate a lasciare più soldi in tasca a fine mese ora che le bollette si mangiano una fetta crescente della busta paga.

Stagnazione trentennale – Premessa: il salario medio che l’Ocse attribuisce all’Italia è molto alto rispetto ai numeri che emergono dalle dichiarazioni dei redditi e dagli open data dell’Inps sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti. La spiegazione è nel metodo di calcolo, che stima la media per un dipendente a tempo pieno che lavori tutto l’anno partendo dal valore aggregato dei salari pagati in un anno nel Paese. In questo caso, comunque, quello che conta è il confronto con l’andamento anno dopo anno negli altri Stati sviluppati. Nella Penisola i valori sono stati altalenanti ma tendenzialmente stagnanti per tutto il trentennio. Il valore massimo (31.080 euro) è stato raggiunto nel 2010, prima che gli effetti della crisi dei mutui subprime si riverberassero sulle economie europee: a quel livello non siamo più tornati e nel 2020 dei lockdown si è registrato un deciso picco negativo (28.559 euro). Lo scorso anno la forte ripresa e la progressiva riduzione del ricorso alla cig hanno portato con sé un recupero del 3,9%, abbastanza per invertire la tendenza negativa registrata tra 1990 e 2020 ma decisamente troppo poco per chiudere il divario con il resto dell’Eurozona.

In Francia e Germania +33%, in Grecia +22% – In Francia e Germania, al contrario, la progressione decennio dopo decennio è stata costante, pur con una battuta d’arresto nell’anno pandemico, e gli incrementi complessivi molto generosi. Tra 1991 e 2021 i salari dei lavoratori francesi sono cresciuti del 33,9%, raggiungendo i 40.115 euro, e quelli dei tedeschi del 33,6%, a 43.722. Anche i greci, pur lontani dai 21.600 euro raggiunti nel 2009 prima della crisi del debito, si sono assicurati un aumento trentennale del 22,5% (a 16.250 euro). L’Est Europa nel frattempo ha inseguito con successo i Paesi del nucleo fondatore: i cittadini di Slovacchia, Repubblica ceca e Slovenia, per le quali i dati sono disponibili solo a partire da metà anni Novanta, hanno visto il salario medio schizzare rispettivamente del 134, 120 e 73%. Ancora più spettacolari i progressi registrati nello stesso periodo in Lituania, Lettonia ed Estonia: +292, +218 e +256% (in partenza la media si fermava a meno di 6mila euro l’anno). Invidiabile anche la performance dell’Irlanda, cresciuta moltissimo a partire dagli anni 90 grazie all’insediamento di molte multinazionali che ne apprezzano il regime fiscale: il monte salari diviso per i suoi lavoratori è salito dell’82%. Più moderata – ma il valore iniziale era già elevatissimo, 50.800 euro – la rivalutazione salariale nel piccolo hub finanziario del Lussemburgo: +38% in 30 anni.

Gli olandesi, complice un lieve calo nel 2021, hanno dovuto accontentarsi invece di un +12%, meno del 17% di aumento goduto dai lavoratori portoghesi (anche per il Portogallo il primo dato disponibile risale al 1995). Uscendo dalla Ue, inglesi e statunitensi nel 2021 hanno portato a casa rispettivamente il 50,5 e 52% in più rispetto a 30 anni prima. Terzultima in classifica, prima di Messico (+0,47%) e Italia, la Spagna, dove gli stipendi hanno ristagnato comunque meno che da noi: rispetto al 1991 sono saliti di un 4,7%, arrivando a 27.483 euro. In nessun Paese i lavoratori hanno visto le loro retribuzioni rimanere al palo come nella Penisola. Sulle cause di questa stagnazione trentennale molto si è scritto. Per riassumere, gli addetti ai lavori tendono ad attribuirla agli scarsi investimenti in innovazione tecnologica da parte delle molte imprese italiane che per riuscire a competere si sono adagiate su produzioni a basso valore aggiunto. Di qui l’avvitamento del paese in un “equilibrio basso” in cui si crea soprattutto occupazione a basse qualifiche e bassi stipendi, in cui prevalgono i contratti precari e prolifera il part time involontario.

Cosa propongono i partiti (e cosa manca) – In campagna elettorale l’attenzione dovrebbe essere concentrata sulle soluzioni. Il centrodestra nel suo programma si limita a evocare un “taglio del cuneo fiscale in favore di imprese e lavoratori” e la “tutela del potere d’acquisto di famiglie, lavoratori e pensionati”, ma senza dire come. Il Pd parla di salario minimo, ma si riferisce non a quello legale uguale per tutti – che esiste in 21 Paesi Ue su 27 – bensì al livello stabilito per ogni settore dal contratto collettivo più rappresentativo. Salvo evocare i “9 euro lordi orari” che sono la cifra-simbolo della proposta del Movimento 5 Stelle e a cui nelle ultime settimane si è allineato il leader di Azione Carlo Calenda. I dem e Calenda hanno inserito nel programma anche la proposta di garantire una mensilità in più ai dipendenti attraverso una decontribuzione ad hoc. Gli economisti Tito Boeri e Roberto Perotti lunedì su Repubblica hanno spiegato che l’idea è “irrealistica” e ci sono modi migliori per sostenere le retribuzioni senza gravare sulle casse dello Stato. Per esempio facendo sì che a pagare di più siano i datori di lavoro, attraverso l’introduzione di un minimo salariale legale, e varando una legge sulla rappresentanza che velocizzi il rinnovo di contratti scaduti da anni. Nessun programma ne parla.