Immaginate di avere tra le mani un “probabile cancerogeno”. Di certo non ci condireste la pasta e nemmeno lo spargereste nel giardino di casa, per quanto autolesionisti. Meglio non rischiare, almeno finché prove sperimentali convincenti non dimostreranno il contrario. E’ il cosiddetto “principio di precauzione”, sancito dalla stessa legislazione europea, traduzione formale del più noto “buonsenso”. Sembra un’ovvietà. Ma per il glifosato, l’erbicida più usato al mondo, tutto ciò non vale. Classificato nel 2015 come “probabile cancerogeno” dall’Agenzia internazionale per la ricerca sul cancro (Iarc) di Lione, esso viene usato come acqua fresca nei campi, nei vivai e nei giardini privati. In Italia si trova al supermercato, mentre fino al 2016 si poteva spargere perfino nei parchi pubblici.
Dal 1996 nel mondo l’uso del glifosato è aumentato di 15 volte, tanto che ormai è presente nei più diffusi prodotti alimentari, nelle falde, nell’acqua piovana, nell’aria, nel mare e nelle urine umane. Le nostre campagne ne sono piene, insieme decine di altre sostanze tra fungicidi, insetticidi e fertilizzanti chimici. Raccogliere erbe spontanee in prossimità dei campi è diventato pericoloso, per non parlare dei rischi professionali di chi nei campi ci lavora.
Quella del glifosato è una storia che si ripete, laddove la combinazione tra interessi privati e inerzia istituzionale fa pendere invariabilmente la bilancia verso i primi. Riepiloghiamo. Dopo la dichiarazione dello Iarc scesero in campo Efsa (Autorità europea per la sicurezza alimentare), Oms (Organizzazione mondiale della sanità) e Fao (Organizzazione delle Nazioni Unite per il cibo e l’agricoltura) a rasserenare gli animi, si fa per dire. Con un colpo di scena le tre autorità conclusero che “è improbabile che il glifosato comporti un rischio di cancro per gli esseri umani come conseguenza dell’esposizione attraverso l’alimentazione”. A conclusioni analoghe arrivò successivamente anche l’Echa (Agenzia europea per le sostanze chimiche).
Tra polemiche, contestazioni e nuovi studi, contrastanti e mai definitivi, nel 2017 l’Ue decise di prorogare per altri 5 anni l’uso dell’erbicida, poi avrebbe deciso se rinnovare o meno la licenza per altri 10 anni, sulla scorta di nuove valutazioni. Quali? E qui sta il punto.
Di studi sul glifosato ce ne sono molti, in gran parte finanziati dall’industria dei pesticidi. Ma ad oggi manca una ricerca indipendente, a lungo termine, sull’intero arco di vita e a dosi equivalenti a quelle alle quali è sottoposta la popolazione (e non solo ad alte dosi). Sarebbe finalmente uno studio esaustivo e difficilmente contestabile. Ad esso sta lavorando eroicamente l’Istituto Ramazzini di Bologna con un network internazionale di ricerca, finanziato unicamente da cittadini privati.
Tra non molto saranno disponibili i primi risultati e ci si chiede perché non subordinare la proroga della licenza alla sua pubblicazione che, a rigor di logica, dovrebbe essere foraggiata a piè di lista dagli stati. Ci si chiede anche perché continuare a prendere in considerazione gli studi dell’industria agrochimica, tutt’altro che indipendente. Per inciso, l’Istituto Ramazzini dagli anni 70 ha scoperto il potenziale cancerogeno di sostanze come il benzene, l’aspartame, il cloruro di vinile, la formaldeide, la trielina e mancozeb, anticipando gli interventi delle autorità regolatorie. Autorità, lo diciamo a gran voce, intervenute anche dopo 30 anni, durante i quali la gente continuava ad ammalarsi e a morire.
Un’anticipazione dello studio ha confermato il potere del glifosato di alterare il microbioma intestinale nei ratti, anche alle dosi attualmente ammesse in Europa, mentre a quelle consentite negli Usa (tre volte più alte) erano già state rilevate alterazioni dei marker legati allo sviluppo sessuale, alla genotossicità e alla flora batterica intestinale. Altri studi hanno segnalato il rischio di sviluppare linfomi non-Hodgkin tra gli agricoltori esposti alla sostanza, nonché danni genetici e stress ossidativo sulle cellule in coltura, solo per citare una parte del corposo materiale già disponibile.
Insomma, c’è poco da stare tranquilli, soprattutto se pensiamo alla sproporzione delle forze in gioco. I tre quarti dei pesticidi sono prodotti da quattro colossi – Bayer, Basf, Cortenova e Syngenta/ChemChina – che solo in Europa spendono intorno ai 9 milioni di euro in attività di lobby. In un mondo ragionevole la ricerca dovrebbe essere svincolata da interessi privati, tanto quanto le lobby non dovrebbero interferire con i processi decisionali. Troppo? Forse, per istituzioni deboli e sottofinanziate come le nostre. Ma l’alternativa è sottostare alla voracità di un pugno di aziende, capaci di lavorare contemporaneamente su più tavoli, stringere accordi con organismi sovranazionali e finanziare programmi di sviluppo come nessun’altra organizzazione della società civile.
Intanto possono muoversi i singoli stati, sempre che lo vogliano. La Francia ad esempio è intenzionata ad eliminare il glifosato nei suoi confini, mentre l’Olanda ne ha vietato la vendita per uso casalingo. Piccoli passi, assodato che la soluzione non può che essere globale, ma sempre meglio che stare a guardare. Attendiamo un segnale anche dalla nostra classe politica, tra le proposte mirabolanti di questa campagna elettorale, magari con un po’ di visione sull’agricoltura che vogliamo. Troppo?