Si è spento a 91 anni, dopo una lunga malattia, l’ex presidente dell’Unione sovietica Mikhail Gorbaciov.

Il “Doomsday clock” consiste in un grafico calcolato da un centinaio di scienziati (tra cui 11 premi Nobel) in cui il pericolo della fine dell’umanità viene quantificato tramite la metafora di un orologio simbolico la cui mezzanotte simboleggia la fine del mondo, mentre i minuti precedenti rappresentano la distanza ipotetica da tale evento. Originariamente, la mezzanotte rappresentava unicamente la guerra atomica, mentre dal 2007 si considera qualsiasi evento che può infliggere danni irrevocabili all’umanità (come, ad esempio, i cambiamenti climatici).

Oggi ci troviamo a soli 100 secondi dalla mezzanotte, ma finché Gorbaciov rimase presidente dell’Urss le lancette stazionavano sempre oltre le 12 ore, fino a raggiungere le 17 ore al tempo dell’accordo Gorbaciov-Reagan sulla moratoria delle armi nucleari. Dalla scomparsa dalla scena politica di questo grande statista gli sforzi di pace si sono ridotti e la stessa fine della guerra fredda non ha arrestato la corsa a precipizio delle sfere dell’orologio.

Ho avuto l’avventura di avvicinarlo il giorno dei funerali di Berlinguer e di presenziare ad un suo intervento sull’ambiente al tempo in cui si riuniva il tribunale Russell. Ricordo una sua frase straordinaria (era il 1987): “Stiamo passando dalla geopolitica alla biosfera e il futuro non sarà più nella guerra, ma nella tutela dell’ambiente”.

Tutti conoscono la sua estromissione ad opera di Eltsin e la vicenda storica della dissoluzione dell’Unione Sovietica. Ma l’avvicendarsi frenetico degli eventi non può cancellare una profonda ingiustizia nei suoi confronti: l’Occidente non ha colto la straordinaria novità di un pensiero che vedeva la globalizzazione non come una feroce competizione, ma come una cooperazione tra popoli che sentono impellente la necessità di sviluppo delle idee di uguaglianza. Una tensione capace anche di superare rigidità ideologiche per costruire il senso di un “limite” che va posto alla distruttività di uno sviluppo frutto della rapacità verso la natura, lo sfruttamento del lavoro, l’intreccio tra tecnica e finanza agenti da dominatori sulla politica.

Con le parole chiave “glasnost” (trasparenza) e “perestrojka” (riorganizzazione) il processo di riforma avviato nel 1985 dall’allora segretario generale del Pcus Gorbaciov pose fine ad una lunga stagnazione economica e politica, introducendo processi che avvicinarono la fine del conflitto Est-Ovest e portarono alla caduta della “cortina di ferro” e, quindi, alla fine della “Guerra Fredda” senza alcuno spargimento di sangue. Gli stessi popoli, le regioni e le repubbliche dello Stato multietnico dell’Unione Sovietica hanno utilizzato l’avvio di un processo che oggi possiamo considerare rivoluzionario, nelle condizioni difficili in cui si apriva. Accanto alle nuove aspirazioni, l’Unione Sovietica si è disintegrata, ma Gorbaciov non ha mai smesso di procedere anche sotto diverse funzioni sovranazionali a sostenere un afflato umanitario e globale, che lo porterà a dirigere l’organismo internazionale per il diritto all’acqua e a presiedere comitati per la pace in più continenti.

Occorre riconoscere che le democrazie liberali, diventate liberiste, videro l’occasione per liquidare quella che ancora molti nel mondo – nonostante tutto – vedevano come un’alternativa di progresso, per decretare la “fine della storia” con la vittoria dell’Occidente. Un’illusione, come forse sapeva Gorbaciov e come dimostra il mondo che abbiamo ereditato dal crollo dell’Urss e del muro di Berlino, dove la democrazia sociale che doveva sostituire il comunismo sovietico si è trasformata in democrature, in regimi conservatori e illiberali, e dove le alternative sono troppo spesso improntate alla violenza e all’uso di armi sempre più micidiali.

Nella vita di Gorbaciov l’atomo e il nucleare civile furono tra le cause dell’insuccesso di quella che alcuni richiedevano diventasse una “seconda rivoluzione russa”. Nel mio ricordo c’è quel 19enne a bordo di un Cessna, con una bandierina tedesca sul timone, che atterrò nel 1987 sulla Piazza Rossa, a un passo dal Cremlino, beffando l’aviazione sovietica. Il ragazzo mandava un segnale beffardo e drammatico: entravamo in un’era in cui il controllo sociale non era più efficace di fronte a manufatti di tale potenza da rompere irreversibilmente la convivenza tra umani e l’armonia con la natura. La tragedia nucleare di Chernobyl dimostrò tutta l’indecisione di Gorbaciov e quanto la sua perestrojka non fosse riuscita a scalfire la parete oscura che legava e lega il nucleare civile a quello militare. E di quanto l’apparato di segretezza che lo circondava (passato armi e bagagli prima a Eltsin e poi a Putin) fosse ormai incistato nel Paese che si stava disfacendo, condizionandone il passato, il presente e il futuro.

Il disastro nucleare spinse l’ormai ex presidente di un Paese che non c’era più a fondare l’Ong ambientalista Green Cross International: in quella veste lo ascoltai alla Camera del Lavoro di Milano, accompagnato dalla amatissima moglie, mentre argomentava sulle minacce interconnesse che l’umanità e la nostra Terra devono affrontare a causa di armi nucleari, armi chimiche, di uno sviluppo insostenibile che comporta la devastazione dell’ecologia del pianeta indotta dall’uomo.

Gorbaciov è morto, ma il mondo che lo ha estromesso, isolato, umiliato è ancora ben vivo. E non è un mondo pacifico e libero dalle armi nucleari, né un mondo più ecologico e meno inquinato. A Milano, quella sera del 1996, lasciò la platea con la frase che suo padre gli aveva detto al suo ritorno dalla Seconda Guerra Mondiale: “Abbiamo combattuto fino a quando non abbiamo finito la lotta ed è così che devi vivere”. Ci ha provato, ma fino ad ora la lotta non accenna a placarsi.

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