E se fosse un’Agenzia per la protezione dell’ambiente a mettere in discussione i reali benefici dell’auto elettrica tout court sposata dall’Europa? È il caso della toscana Arpat, che con una nota pubblicata sul proprio sito mette in evidenza come, pur non generando CO2 allo scarico, “il passaggio all’elettrico non implicherà sostanziali miglioramenti ambientali”.
I motivi sono quelli messi in evidenza anche da recenti inchieste pubblicate da Il Fatto Quotidiano e confermate da importanti costruttori di auto, come la Volvo. Secondo Arpat, le auto elettriche e a idrogeno “sono le uniche tecnologie in grado di portare a zero l’impronta carbonica di un’auto, misurata “from tank to wheel” – dal serbatoio alla ruota. La definizione indica la fase di utilizzo della macchina ed esclude tutti i processi produttivi che sono a monte e di smaltimento che si trovano a valle. Vale a dire l’estrazione e la trasformazione delle materie prime, la produzione del veicolo e soprattutto degli accumulatori, nonché il loro riciclo o smaltimento a fine vita, tutto ciò che raccolto sotto l’espressione “from well to wheel” (dal pozzo alla ruota) rilascia CO2. Nelle fasi produttive dei veicoli elettrici l’energia necessaria proviene ancora per la maggior parte da fonti non rinnovabili, mantenendo ancora alta le emissioni di anidride carbonica”.
Concetti che mettono in dubbio la decisione dell’UE di non adottare il criterio del “life cycle assessment” per determinare il reale impatto ambientale delle automobili di nuova fabbricazione: significa che le uniche emissioni di CO2 a essere conteggiate in ambito omologativo saranno quelle allo scarico e non si terrà conto della reale impronta carbonica globale delle vetture, ovvero dalla costruzione allo smaltimento, ma della sola fase di utilizzo.
Arpat, inoltre, sottolinea come “nella stessa votazione in cui si è decisa a tavolino l’abolizione di cilindri e pistoni, l’assemblea ha votato contro la riforma del mercato delle quote di emissione Ets “Emission trading system” contro il Fondo sociale per il clima destinato alle fasce di popolazione più esposte ai cambiamenti climatici e contro il Cbam “Carbon border adjustement mechanism”, il meccanismo per imporre dei dazi sull’importazione di prodotti non conformi ai parametri europei, rendendo il phase-out del 2035 un’iniziativa incompiuta. La decisione appare segnata da una zona d’ombra che risulta difficile dissimulare”. C’è il dubbio, dunque, che la decisione europea di sposare la tecnologia elettrica come unica soluzione possibile per la decarbonizzazione della mobilità sia una scelta che ha più a che fare con la politica che con la tutela dell’ambiente?
“La scelta della Commissione europea di puntare sull’elettrico e quindi sulle fonti di energia rinnovabili, si infrange al momento in cui, si trova costretta a puntare sulle fonti fossili, in vari ambiti (industriali, strategici e civili), per affrancarsi dalla dipendenza energetica dalla Russia. Condivisibile è il valore etico della scelta: il clima, però, è istanza globale, non regionale”. In pratica la corsa alla mobilità elettrica, che lascia attualmente tiepidi i consumatori, rischierebbe di diventare una battaglia contro i mulini a vento e non una reale svolta per il clima.
Altro rischio, nondimeno, è che “il prezzo della decisione di Bruxelles rimarrà tutto sulle spalle dei consumatori: l’automobile tornerà ad essere un privilegio, spingendo ai margini del mercato le fasce più deboli. Considerati i rilevanti aumenti registrati dalle materie prime nel corso degli ultimi due anni, resta difficile pensare che nel breve periodo i costi di produzione delle EV (Electric Vehicle) possano diminuire facendo rilevare quanto la catena del valore sia esposta alle oscillazioni delle speculazioni. È ragionevole pensare che il loro prezzo non scenderà in modo clamoroso tanto da rendere i BEV-EV un prodotto “mass market” nel medio periodo. Qualsiasi iniziativa rappresentata da aiuti di stato o incentivi, continueranno quindi ad essere indispensabili per spingere un interesse destinato a rimanere marginale ancora a lungo”.
Tuttavia, al di là delle considerazioni di natura economica, per Arpat “adottando il criterio prima accennato “dal pozzo alla ruota”, si scopre che le auto a corrente non sono poi così pulite come si potrebbe pensare. È, infatti, noto che più le batterie che le alimentano sono grandi, più elevata è la loro impronta carbonica. Il report di quest’anno della Goldman Sachs indica come la produzione delle batterie oggi in uso nella maggior parte dei veicoli elettrici, sia concentrata in Cina, Sud Corea e Giappone generi 175 grammi di CO2 per ogni kWh di capacità e che tale tendenza è previsto che non si arresti, considerato che sono Paesi che basano pesantemente il proprio mix energetico sui combustibili fossili”. Ad oggi, giova ricordarlo, oltre tre quarti della produzione di accumulatori arriva proprio dall’Asia.
“Su questo tema si gioca molto della credibilità della svolta verde dell’Europa, sono due i provvedimenti chiave legati a questo nodo. Il primo riguarda la tassazione dei beni in ingresso in base alla loro impronta carbonica: un’auto elettrica costruita fuori dai confini dell’Unione ad esempio in Cina o in Sudamerica, la cui produzione fosse alimentata con fonti di energia fossili, sarebbe passibile di una tassazione elevata. Tale misura darebbe un respiro più coerente e globale alla lotta al cambiamento climatico. Il secondo è quello del cosiddetto “Life Cycle Assessment” LCE e cioè l’adozione di un protocollo che tenga conto proprio delle emissioni “well to wheel” per valutare l’impronta carbonica del ciclo di produzione di ogni modello. Ovviamente tale impronta varia non soltanto in funzione della taglia della batteria ma anche del mix di fonti energetiche utilizzato per produrre l’energia necessaria ai processi di produzione. Oggi secondo i dati di Nomisma energia, osservatorio privilegiato nell’ambito della ricerca in campo energetico e ambientale, la produzione media di eolico e fotovoltaico in Europa è pari al 2% circa, mentre la Germania nell’attuale scenario internazionale, ha deliberato l’aumento della produzione da carbone dal 21 al 31%. La scelta del Parlamento europeo si basa, dunque, su una speranza di cambiamento suggestiva ma non fa i conti con la realtà”, si legge infine nella nota dell’Arpat.