L’inflazione è tornata ad essere un tema economico di primo piano. Il costo del carrello della spesa è aumentato nell’ultimo anno del 9,7%, un valore che non si registrava dal 1984. Nel decennio scorso nessuno si occupava più dell’aumento dei prezzi, straordinariamente modesto. Casomai il problema della Banca Centrale Europea era l’opposto: come stimolare una moderata inflazione sempre profittevole per il mondo delle imprese.
Con l’inflazione annua all’8% lo scenario è drasticamente mutato. Uno dei principali effetti dell’inflazione è quello di ridurre il reddito reale dei consumatori. Vediamo alcuni numeri. Il Pil italiano nel 2020 è stato di 1.653 miliardi e dunque la perdita netta per i consumatori si può stimare in 123 miliardi. Dividendo questa somma per il numero delle famiglie, circa 26 milioni, otteniamo una riduzione di reddito per nucleo familiare di circa 4.700 euro annui. Se poi a questa somma aggiungiamo la mancata crescita economica rispetto alle previsioni (-4% del Pil), oppure l’aumento del costo dei mutui, si può avere una misura molto semplificata ma efficace dell’elevato costo dell’inflazione per le famiglie italiane.
La domanda che ora molti si pongono è se questa inflazione durerà a lungo oppure se è una fiammata temporanea. Ovviamente molto dipenderà dall’analisi delle sue cause. Al di là di un certo pudore che caratterizza l’analisi di molti commentatori, questa è sostanzialmente un’inflazione da guerra determinata dalle sanzioni che la comunità internazionale ha predisposto per punire l’aggressione militare della Russia. L’inflazione sta semplicemente facendo il suo lavoro, segnalando le scarsità relativa delle risorse e spostando enormi ricchezze verso alcuni Paesi, sottraendoli ad altri. Quando si fermerà questo processo di redistribuzione anarchica e casuale della ricchezza causato dalla guerra attraverso l’aumento dei prezzi’? Guardando alla teoria economica e all’esperienza possiamo pensare sinteticamente a due scenari.
Nel primo scenario, quello ottimistico, la guerra cessa in breve tempo sul campo militare oppure al tavolo delle trattative. A questo punto il commercio internazionale, e soprattutto il mercato delle materie prime, si rimetterà in moto e la situazione tornerà ad una nuova normalità. Anche i prezzi delle materie prime scenderanno di molto, portandosi probabilmente al livello del 2021 o anche più sotto. L’inflazione se ne va e magari ci sarà una modesta deflazione con un qualche recupero del potere d’acquisto. In termini economici, la perdita di reddito generata dalla guerra è un fatto temporaneo senza conseguenze nel lungo periodo. Una battuta d’arresto dell’economia che si recupera velocemente.
Nel secondo scenario la guerra continua e si protrae a lungo, per mesi e forse per anni. Qui dobbiamo considerare ancora due ipotesi. Nella prima, chiamiamola della passività, il consumatore accetta la perdita del potere di acquisto generata dal conflitto che a questo punto va ad intaccare il suo reddito permanente. I prezzi non aumenteranno più, a meno di eventi eccezionali, ma non torneranno nemmeno indietro. Questa caduta definitiva di reddito avrà delle conseguenze per l’economia in quanto ridurrà permanentemente la spesa delle famiglie, ma almeno l’inflazione sarà tornata ai livelli normali. Il governo può inserirsi con qualche intervento temporaneo per contrastare la caduta della domanda aggregata e per sostenere l’economia. In sintesi, in questo scenario il consumatore paga con una riduzione permanente del reddito la fine dell’inflazione.
La seconda ipotesi in caso di conflitto prolungato è quella del consumatore che si scopre anche produttore. Chiamiamo questo lo scenario conflittuale. In effetti il consumatore ha un’arma per difendersi dal caro vita ed è quella di chiedere, come lavoratore, aumenti salariali almeno al passo con la crescita dei prezzi. Siamo nello scenario degli anni Settanta, che peraltro molti commentatori paventano. Gli aumenti salariali, se ottenuti, provocheranno una ulteriore impennata dei prezzi e così via. L’economia sarà governata dalla spirale prezzi-salari con un’inflazione endemica, oltre che elevata. L’esperienza storica mostra però che questa strada è quella più dannosa per l’economia. Non solo i lavoratori raramente riescono a recuperare per intero il reddito perduto, ma aumentano le diseguaglianze sociali perché non tutte le categorie hanno lo stesso potere economico. L’indicizzazione dei salari ai prezzi prosegue sempre a macchia di leopardo. Come spesso si dice, l’inflazione è la tassa più iniqua perché colpisce le fasce più deboli. L’inflazione, a questo punto diventata permanente perché alimentata dal conflitto redistributivo, porta anche ad una seconda grave conseguenza. La Banca Centrale non starà a guardare la svalutazione della moneta ma interverrà con l’unico strumento a sua disposizione, l’incremento dei tassi di interesse. Indebitarsi per le famiglie e le imprese diventerà più caro e si creeranno le condizioni per una recessione economica. Questo, peraltro, lo stiamo già vedendo. Come conseguenza diretta di una politica monetaria restrittiva il debito pubblico, alimentato da un elevato tasso di interesse, diventerà ingovernabile generando una grave crisi fiscale.
Quale dei tre casi si realizzerà? Su questo punto l’analisi economica è impotente e tutto dipenderà dalle scelte dei grandi attori della politica internazionale. L’economia deve cedere inevitabilmente il passo alla politica perché l’inflazione è l’altra faccia della guerra giocata in campo economico. Un fatto però è certo: gli effetti economicamente distruttivi del conflitto russo-ucraino tenderanno ad aumentare esponenzialmente nel corso dei prossimi mesi e quindi, se non ci saranno novità, è opportuno prepararsi.
Un’elevata inflazione può provocare effetti devastanti e anche imprevedibili. Basta guardare al caso odierno dell’Argentina che ha un’inflazione del 70% annuo, portando quasi metà della popolazione sotto la soglia di povertà. Noi siamo ancora molto distanti da questa soglia, ma anche un livello di inflazione stabile del 10% sarebbe difficile da sopportare – economicamente e soprattutto socialmente.