“30 euro bocca figa”. Il refrain per la giovane prostituta nigeriana chiamata Princess (Gloria Kevin), che batte i margini della strada nella lontana periferia di Roma verso il mare, è sempre lo stesso. I clienti si susseguono, giovani, vecchi, frettolosi, imbarazzati, violenti, ma tra loro il principe azzurro in forma di redenzione sembra non arrivare mai. Princess di Roberto De Paolis, sezione Orizzonti a Venezia 79, è una sorta di fiaba cupa e spoglia sul disumano degrado contemporaneo che accoppia migrazione incontrollata e ricattatoria, con la vendita a prezzi stracciati del proprio corpo e della propria sessualità. Non stiamo però parlando di un cinema che documenta il fatto reale, magari spiando la copula clandestina, oscurando targhe dei clienti, sfiorando la pelle delle prostitute in strada; ma di una ben più pudica ricostruzione finzionale utilizzando quelle ragazze, Princess/Kevin in primis, che su quella strada si sono davvero prostituite facendole diventare attrici proprio come i cosiddetti clienti che diventano, tra gli altri, i visi e i corpi di Lino Musella e Maurizio Lombardi.
Ecco allora la dimensione naturalistica della fiaba con il bosco di pini marittimi, di tronchi, rovi e cespugli dove nascondere amplessi e compravendita, appoggiandosi ad uno scomodo albero o a un materasso sfondato e lurido. Bosco infittito che diventa anche protezione improvvisa dalla polizia a cavallo che tenta il blitz per sgominare l’anello più debole e fragile del sistema della prostituzione. Così Princess evitando l’ideologia dicotomica e spettacolare da Pretty Woman dell’Ostiense, procede per atti reiterati (abbordaggio, consumazione o rifiuto) di uno schema capitalistico devastante. Princess, ogni giorno addirittura con una parrucca diversa per vivificare la “merce”, è schiava sì dell’improvvisato mestiere da cui non può scappare, ma anche intrappolata come un robot nello schema mentale estremo del denaro come unica inesorabile ancora di salvezza. Impossibile per la ragazza pensare ad altro che alle banconote, giocando peraltro al ribasso infinitesimale come in qualunque forma di rapporto di lavoro contemporaneo, nemmeno quando si presenta il cliente “buono” che forse prova un sentimento che va oltre il sesso. Figuriamoci poi il senso di comunità con le connazionali, paventato ad inizio film, che si sgretola anche solo per una marchetta eseguita nello spazio di un’altra che non andava occupato. De Paolis che con Cuori puri aveva già esplorato schemi sociali e culturali dominanti e oppressivi, torna con un approccio stilistico intrusivo ma mai invasivo, lontano da morbosità espressive ma anche da vibranti neorealismi.