Tra i nomi dei più grandi produttori della Difesa si sta facendo largo anche quello della Corea del Sud. Negli ultimi anni Seoul ha scalato silenziosamente la classifica dei maggiori esportatori di prodotti bellici del mondo, arrivando al decimo posto nel 2021, secondo quanto riportato dallo Stockholm International Peace Research Institute (Sipri). I numeri delle esportazioni sudcoreane sono ancora ridotti rispetto agli Stati che dominano la classifica, ma i risultati raggiunti dal Paese asiatico non sono sfuggiti agli esperti del settore militare. Né a quei governi interessati ad ammodernare o rimpinguare i propri arsenali con prodotti meno costosi rispetto a quelli americani ma comunque tecnologicamente avanzati. A favorire l’ascesa della Corea del Sud sono stati diversi fattori, tanto interni quanto esterni, e gli esperti prevedono un ulteriore aumento delle esportazioni belliche di Seoul nei prossimi anni, grazie anche alla tensione nel Pacifico e alla guerra in Ucraina.
D’altronde basta dare uno sguardo ai numeri per comprendere quanto rapidamente è cresciuto il settore bellico sudcoreano. Secondo i dati del Sipri, fino al 2016 l’export di Seoul corrispondeva soltanto all’1% dei traffici mondiali, ma nei successivi cinque anni è arrivato al 2,8%, registrando così un incremento del 177% nelle vendite. A confermare questo trend è anche la Export-Import Bank of Korea, che nel suo ultimo report evidenzia come il valore delle esportazioni belliche sia passato dai 3 miliardi del 2020 ai 7 del 2021, mentre per il 2022 ci si aspetta una crescita pari a 10 miliardi di dollari.
Un esempio dell’espansione sudcoreana nel mercato estero è certamente l’accordo raggiunto a fine luglio con la Polonia per la vendita di mille carri armati K9, di 648 obici semoventi e di 48 jet FA-50 per un valore stimato di circa 15 miliardi di dollari. Recentemente, Varsavia ha anche espresso interesse verso l’acquisto dei lanciatori multipli fabbricati sempre da Seoul, in attesa di ottenere il via libera per gli Himars di produzione americana.
L’accordo siglato negli ultimi mesi con la Polonia ha segnato un record per l’export del Paese asiatico, ma non è la prima volta che Varsavia si rivolge a Seoul. Il primo acquisto di carri armati K9 risale al 2014, in concomitanza con l’annessione russa delle Crimea, e l’esempio polacco è stato seguito pochi anni dopo da Finlandia, Norvegia ed Estonia. Ma i prodotti sudcoreani non si sono diffusi solo in Europa. Il K9 sarà presto in dotazione all’esercito dell’Egitto ed è anche il primo modello di carro armato asiatico ad aver fatto il suo ingresso nel mercato dell’Australia.
Il merito di aver dato slancio all’industria della difesa sudcoreana va a Moon Jean-in, che durante gli anni della sua presidenza (2017-2022) si è fatto promotore di una maggiore collaborazione tra Stato e aziende, spostando il focus della produzione nazionale dal soddisfacimento dei bisogni interni verso il mercato estero. Tasselli fondamentali del lavoro di Moon sono stati il Defense Industry Development Act e il Defense Science and Technology Innovation Promotion Act, entrambi pensati per incentivare le esportazioni e per rendere il più possibile locale la produzione, riducendo così la dipendenza dai componenti realizzati all’estero e aumentando il margine di manovra del governo nelle scelte relative all’export. Produrre in patria la maggior parte dei pezzi consente a Seoul di decidere in autonomia verso quali mercati dirigersi, senza dover richiedere ai Paesi che producono le singole componenti ulteriori autorizzazioni. Oltre a garantire costi minori e un incremento del valore del comparto industriale nazionale.
Inoltre, il rafforzamento della propria industria permette a Seoul di fornire al proprio esercito prodotti tecnologicamente avanzati in grado di sopperire al sempre minor numero di soldati. A causa del costante calo demografico, il numero di cittadini sudcoreani idonei alla leva passerà entro il 2023 dagli attuali 330mila a 180mila, causando un deficit a livello di personale militare che rischia di limitare le capacità di risposta di Seoul.
Ma puntare maggiormente sull’industria nazionale e sulle esportazioni serve anche a raggiungere determinati obiettivi in politica estera. Vendere i propri prodotti bellici ad altri Paesi vuol dire infatti inserirsi in una specifica rete di alleanze e consolidare i rapporti con quei governi che scelgono di aggiungere ai propri arsenali gli armamenti sudcoreani. Non a caso, l’export bellico è servito a Seoul per allinearsi a Usa e Australia nella contesa per il Pacifico ed anche per segnalare il proprio sostegno all’Ucraina. Non potendo inviare materiale bellico direttamente a Kiev, la Corea del Sud ha offerto i suoi prodotti a quei Paesi che hanno ceduto parte del proprio arsenale all’esercito ucraino, come dimostra il caso della Polonia.
Il conflitto in Ucraina si è quindi dimostrato un’ottima occasione di espansione per l’industria bellica sudcoreana in Europa, ma il Paese asiatico potrebbe presto trovare nuovi sbocchi anche in altri mercati. A causa delle sanzioni occidentali, la Russia sta avendo difficoltà nell’esportare i propri prodotti e rischia di perdere importanti acquirenti, primi fra tutti l’India, che deve fare i conti anche con le pressioni degli Usa affinché prenda le distanze da Mosca.
Il cambio di paradigma voluto da Moon (e adottato anche dall’attuale presidente Yoon Suk-yeol), la tensione crescente nel Pacifico e la guerra in Ucraina sono tutti elementi che hanno contribuito alla crescita dell’export della Corea del Sud e difficilmente si assisterà a un cambio di tendenza nel prossimo futuro. Yoon Suk-yeol punta ancor più del suo predecessore sul rafforzamento delle capacità belliche del Paese e questa contingenza di fattori interni ed esterni non fa che sostenere il suo sogno di una Corea del Sud forte sul piano (anche) militare.