I recenti articoli de ilfattoquotidiano.it in tema di lavoro dimostrano come nel nostro Paese vi sia ancora tanto, troppo da fare per recuperare anni di disattenzione e di mancate iniziative a tutela delle lavoratrici e dei lavoratori. I dati sull’andamento dei salari nell’ultimo ventennio rispetto alla media europea, in cui siamo di gran lunga i fanalini di coda, sono chiarissimi e suonano come un atto d’accusa non solo nei confronti della politica e dei governi che si sono succeduti, ma anche delle politiche sindacali portate avanti da Cgil, Cisl e Uil, che in questi decenni, in nome della cogestione e della gestione di servizi sussidiari, hanno di fatto abdicato al ruolo di rappresentanza delle lavoratrici e dei lavoratori. Un lavoro, il nostro, mal pagato in tutti i settori, pubblici e privati, caratterizzato dalla precarietà e dai bassi salari. E non possiamo dire che questa ricetta (bassi salari e precarietà) abbia portato risultati in termini di occupazione. I tassi di disoccupazione sfiorano il 10 per cento e sono tra i più alti in Europa (siamo in coda subito dopo Grecia e Spagna).
Se a questo aggiungiamo il numero in crescita tendenziale degli infortuni sul lavoro, che nel 2022 ha toccato il più alto livello degli ultimi anni, il quadro che ne esce è da brividi e non permette ulteriori disattenzioni, ma necessita di azioni immediate e concrete. In primo luogo, vanno rafforzate le competenze e l’operatività dell’Inl (Ispettorato nazionale del lavoro), valorizzando professionalmente ed economicamente questo personale tra i peggio pagati dell’intero comparto pubblico. Valutiamo positivamente le recenti assunzioni ma bisogna fare di più, superando i mille rivoli burocratici e di competenze trasversali che ancora oggi impediscono di fatto una vera azione di contrasto al lavoro nero, sommerso e insicuro. Per quanto concerne i salari, bisogna uscire dalla retorica che in questi anni ne ha impedito la crescita con riferimento all’aumento del costo della vita, con misure che hanno privilegiato da una parte l’aumento dei profitti e dall’altra, nel pubblico, l’esternalizzazione dei servizi, che con la svendita di molti asset pubblici ha permesso a pochi di arricchirsi a danno dell’efficacia dei servizi resi.
L’inflazione in forte crescita e l’impennata dei costi energetici non permette palliativi. Nel mese di giugno abbiamo superato il 7% di inflazione a fronte di stipendi e salari che, quando si sono rinnovati i contratti (e non è avvenuto per tutti i settori), si sono a malapena attestati mediamente a un +1,2% annuo, percentuale – come si vede – assolutamente disallineata all’inflazione, che ha ancor più falcidiato il potere di acquisto di salari, stipendi e pensioni. Una crescita di salari e stipendi adeguata permetterebbe non solo di tutelate il potere di acquisto, ma anche di rilanciare i consumi evitando il rischio recessione.
Una soluzione è puntare sul taglio del cuneo fiscale per tendere a un aumento delle buste paga e dell’occupazione. Confindustria stima in 16 miliardi di euro le risorse necessarie per incrementare le retribuzioni di oltre 1.200 euro all’anno. Sarebbe uno stipendio in più e, soprattutto, coprirebbe la perdita del potere d’acquisto provocata dall’inflazione. Bisognerebbe inoltre migliorare e innovare i nostri cicli del prodotto, con una massiccia dose di digitalizzazione, che può garantire un incremento della produttività da correlare direttamente all’erogazione del salario aziendale e di secondo livello.
Bisogna inoltre ripensare all’attuale indicizzazione di pensioni e salari all’aumento dei prezzi. Il riferimento che si utilizza nei rinnovi contrattuali è infatti quello dell’inflazione programmata, che viene fissato annualmente dal ministero del Tesoro. L’indicatore, che esclude dal calcolo le variazioni dei prezzi dell’energia, è assolutamente inaffidabile e non più applicabile nella situazione attuale. Uno strumento reale di collegamento tra inflazione e salario, abbandonato nel 1993, può essere valutato, tenuto conto che è in vigore in altri Paesi dell’Ue, come ad esempio il Belgio, senza che questo abbia comportato situazioni di paventato default.
Inoltre, è necessario utilizzare anche la strada della definizione del salario minimo. Questa ovviamente è una misura per garantire la tenuta complessiva del sistema, anche se è evidente che la cifra di cui si parla (9 euro lordi l’ora) è sottostimata rispetto al problema complessivo. Come sindacato siamo per privilegiare la contrattazione collettiva come strumento per garantire redditi dignitosi, ma è indubbio che in questi anni il livello di tenuta contrattuale, soprattutto nei settori meno tutelati, non è stato in grado di farlo. Non vediamo quindi in alcun modo lesiva dell’autonomia delle parti la fissazione di un limite minimo da cui partire.