Un film importante, per certi aspetti “ferrarianamente” provocatorio e ossessivamente penetrato dal tema religioso come accadeva in certi suoi iconici lavori, benché ambientato in un contesto storico-geografico distante dalla sua dolente e disturbante New York
“Mi sorprende e amareggia che molti di voi italiani non conoscano il massacro di San Giovanni Rotondo del 1920… come è possibile!?”. Se lo chiede incredulo Abel Ferrara che proprio su quel tragico evento ha costruito il suo Padre Pio, il nuovo e atteso lungometraggio del regista newyorkese proposto in concorso oggi alle Giornate degli Autori, sezione autonoma e parallela della 79ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Un film importante, per certi aspetti “ferrarianamente” provocatorio e ossessivamente penetrato dal tema religioso come accadeva in certi suoi iconici lavori, benché ambientato in un contesto storico-geografico distante dalla sua dolente e disturbante New York. Ma si sa che ormai Abel Ferrara sia di casa in Italia, specie a Roma, e non casualmente questo Padre Pio è una coproduzione italo-tedesco-britannica, sottolineando quanto gli States siano ormai da anni lontani dal sostegno al cinema di Ferrara. E la provocazione è accesa fin dal titolo, perché Padre Pio non è un biopic sul santo da Pietrelcina, ma è la ricognizione di un frammento storico del meridione italiano arretrato e sofferente post prima guerra mondiale, con la figura del frate apparentemente alienata al mondo reale che “assiste” dal proprio convento alla Storia che si consuma. “Pio è il protagonista, la sua assenza è presenza attiva” sottolinea il cineasta de Il cattivo tenente di cui questo film presenta non pochi spunti quale possibile “controcampo”. Assenza che si fa presenza come accade nel miglior cinema laddove il fuori campo si nutre di senso, ma anche come ulteriore provocazione politica in contrasto a leggende che vedevano Padre Pio a suo modo “colpevole” di aver istigato l’eccidio avvenuto il 14 ottobre 1920 in cui persero la vita 14 persone e 80 ne rimasero ferite sotto gli spari delle forze dell’ordine per conto della governance latifondista (e con qualche presenza del neonato Fascismo..) a svantaggio dei membri del Partito Socialista fresco vincitore delle elezioni. Ferrara appoggia la corretta revisione storica di totale innocenza del frate, invece impegnato nelle sue battaglie spirituali “contro il demonio e le sue tentazioni nella perpetua ricerca di un Dio che sembra averlo abbandonato”, a confessare, sostenere e fare miracoli sottotraccia ai popolani locali. Un film sugli ultimi in modalità radicale come nel miglior Ferrara, estremista del rehab a tutto tondo, che non a caso ha voluto per il ruolo da protagonista il bad boy di Hollywood Shia LaBeouf, sconsacrato dallo show biz ma assoldato (realmente) in alcuni monasteri dopo una profonda conversione spirituale. “Volevo uno dell’età giusta di Pio a quel tempo” sogghigna Ferrara eludendo la vera risposta che poi arriva, “Shia è un attore di enorme talento, sta facendo un percorso spirituale straordinario, è esattamente intonato alla figura di Padre Pio”. In effetti la presenza spesso silente ma intensa di LaBeouf giova in profondità all’esito del film, capace di esprimere un’integrità rivoluzionaria dall’interno come controcampo alla rivoluzione socialista “esterna” messa in scena in gran parte del lungometraggio. Perché Padre Pio – alla fine – è un’opera composta di due storie parallele e “convergenti”: l’universo monastico e secretato del frate e i tumulti politici che scuotono le masse. Per quanto con diversi difetti di equilibrio tra le parti, e alcun momenti “sgangherati” alternati però ad attimi di puro sublime (esempio la scena del miracolo), quest’ultima fatica di Abel Ferrara merita un plauso in quanto gesto di rivelazioni plurime per la (nostra) Storia, il cinema, la coscienza.