Amami, quindi mangiami. Con Bones and all, in Concorso a Venezia 79 per il Leone d’Oro, Luca Guadagnino gira il suo primo film “americano” e probabilmente anche il suo film più maturo, compiuto e onestamente inatteso. Già, perché all’osannato vagone sentimentale di Chiamami con il tuo nome si aggiunge il locomotore ad alta velocità del cannibalismo. Bones and all è un film sullo smarrimento identitario, la solitudine, l’accettazione di sè e l’istinto di sopravvivenza di due adolescenti del midwest statunitense in pieni anni ottanta con un discreto e funzionale concentrato di sangue che cola sulla bocca e sul collo, arti morsicati, estrazione di budella. La 18enne Maren (Taylor Russell) sembra aver trovato sistemazione temporanea con il padre in una casa roulotte in Virginia, ma in piena notte attratta da una festicciola in casa di una compagna di classe, sdraiata accanto all’amica del cuore invece di chissà quale classico gesto d’amore le inizia a succhiare un dito fino a staccarglielo a morsi. La fuga di padre e figlia è fulminea, di nascosto da tutti, verso un altro luogo in cui nessuno perseguiterà Maren per aver ferito, sbranato o ucciso qualcuno per via del suo naturale istinto cannibale. Poco tempo dopo, sempre in un alloggio provvisorio nel Maryland, sarà il padre a scappare nottetempo lasciando da sola Maren. Sul tavolo qualche banconota e un walkman contenente una cassetta dove il genitore le racconterà con amore e dolore il segreto che la riguarda. Zainaccio spiovente sulla schiena, giaccone largo e liso, Maren inizierà un lungo graduale on the road tra pullman Greyhound, mappe cartacee, notti all’addiaccio, verso la possibile meta di una madre scomparsa fin dalla sua nascita. Sul suo tragitto incontrerà altri “cannibali” vagabondi come lei, tra cui Sonny (Mark Rylance) un catatonico ma sinistro vecchietto che dice di cibarsi solo di persone appena morte e che insegna alla ragazza ad annusare i propri simili per riconoscerli; ma soprattutto uno sbandato simil tossico di nome Lee (Timothée Chalamet), anch’esso diversamente carnivoro, ragazzo in fuga dalla propria spappolata (anche per colpa sua) famiglia d’origine. Bones and all assume subito uno spirito classicamente ramingo, romanticamente inquieto, sinistramente mostruoso. La tensione dello spostarsi rivela un sentimento tra i due ragazzi che però non riesce mai a distaccarsi oltre la vitale sopravvivenza fatta di assalti micidiali su ignari corpi di semplici comprimari in carne ed ossa. Fino a quando il desiderio di “normalità” tra i due prende il sopravvento e un finale grandguignolesco fa capolino senza requie. Immerso in una basculante calda quiete cromatica e musicale anni ottanta (corde pizzicate di chitarra a go-go di Trent Reznor e Atticus Ross), Guadagnino filma paesaggi fordiani, che spesso mostrano l’infinito in profondità di campo, in uno stato di grazia poetico stilistica da applausi. Non è da meno la messa in scena più su distanze strette, quando la macchina da presa per la maggior parte del minutaggio è vicina al fisico sciupato e scostante dei protagonisti, con quelle bocche, gote, labbra che grondano impunemente liquido rossastro. In fondo il segreto di questo piccolo capolavoro contemporaneo sta proprio nel tenere in equilibrio gli estremi fino al necessario climax: intimità ed orrore, desiderio e paura. In questo vengono in aiuto la naturale e grezza indipendenza della fisicità della Taylor (Lost in space, Escape room) e tutto l’armamentario istrionico di Chalamet, qui in versione ossigenata e sputacchiosa, tutto curvo e ossuto come una figura umana di un quadro Schiele. Bones and all è tratto dal romanzo di Camille De Angelis che utilizzava la metafora cannibale per parlare di veganesimo, anche se nelle scene in cui Lee e Maren entrano in un macello, ma soprattutto quando Sonny schiaccia un pollo con le mani per cucinarlo l’interrogativo del vivente che mangia il vivente echeggia senza perdere nemmeno un grammo di attenzione. Uscita in sala prevista per il 24 novembre.
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