Ormai è quasi una non notizia il periodico annuncio che Gazprom bloccherà le forniture di gas a questo o quel paese o, come successo ieri, che non riaprirà il NorthStream 1 per qualche “guasto tecnico” al quale nessuno crede. Il gas e il petrolio sono strumenti di guerra e la strategia di Putin è chiarissima: dividere e fiaccare gli europei, come dimostra anche la simultanea promessa di concedere maggiori forniture di gas all’Ungheria. Alla decisione del G7 di imporre un tetto al prezzo del petrolio, i russi hanno subito risposto con la minaccia di sospendere le forniture di petrolio e di fare lo stesso nel caso in cui si decidesse di fissare un tetto al prezzo del gas, come ha finalmente dichiarato di volere fare la Presidente della Commissione Von Der Leyen.
Eppure, invece di concentrarsi sugli umori di Gazprom, sarebbe utile riconoscere che certo l’assurda guerra di Putin gioca un ruolo importante, ma che la situazione nella quale ci troviamo è dovuta anche a scelte sbagliate di molti governi EU, tra cui l’Italia, che negli anni hanno aumentato la nostra dipendenza, hanno ritardato lo sviluppo delle energie alternative e dell’efficienza e hanno lasciato il campo libero a regole e pratiche, che oggi permettono speculazioni che non hanno confronti nel resto del mondo. E’ perciò impossibile pensare di ottenere un riequilibrio duraturo semplicemente chiedendo continui esborsi di denaro pubblico per pagare direttamente le bollette o andando a cercare per il mondo altro gas, senza intervenire sulla causa di fondo.
La realtà è che dietro la bolletta alle stelle, la siccità o le alluvioni che ci costano ogni anno miliardi di euro c’è la stessa causa: la nostra persistente dipendenza dai combustibili fossili, e in particolare per l’Italia, dal gas. E’ un errore continuare a non vedere il legame diretto fra crisi climatica e prezzo dell’energia e dell’elettricità e inseguire soluzioni solo apparentemente più immediate e semplici come cercare il gas ovunque o pianificare nuove infrastrutture. Senza alcuna analisi seria su quanto già ora un piano straordinario per rinnovabili ed efficientamento energetico (che è ben più che ridurre il termostato) potrebbe farci risparmiare dei 76 miliardi di metri cubi di gas che consumiamo oggi ogni anno. Errore che fa il paio con lo stop allo sviluppo delle rinnovabili, che vedeva l’Italia ai primi posti nel mondo fino al 2011, e al quale ha corrisposto l’aumento spudorato della nostra dipendenza dal gas di Putin, passato dal 23% al 40% dopo il 2014 e l’invasione della Crimea e che ci costa oggi almeno 15 miliardi in più di importazioni di gas.
Per ridurre i prezzi, ci vogliono certo riforme profonde anche in Europa come ripete da mesi Draghi, dall’eliminazione del diritto di veto in sede di Consiglio europeo, che oggi permette a Orban, ma anche all’Olanda o a qualsiasi paese di bloccare ogni decisione comune, alla revisione del funzionamento del mercato elettrico e del suo legame insano con il gas, eccetera. Ma non basterà.
Bisogna soprattutto uscire dall’idea che ci possiamo permettere il lusso di pensare adesso all’emergenza della bolletta e poi a quella della temperatura. Abbiamo perso anche troppo tempo. E invece l’unica strada seriamente intrapresa, oltre a misure tampone di risparmio estemporaneo e sussidi pubblici insostenibili, è ancora quella di superare la dipendenza dal gas russo con altro gas, senza badare a spese e neppure considerando alternative possibili: e quindi via ai rigassificatori, che non saranno pronti ancora per molti mesi, ma che si vogliono fare funzionare per decenni alla faccia degli impegni di arrivare ad emissioni zero nel 2050 e dei costi ingenti del gas liquefatto.
Ma chi dovrà pagare i costi di infrastrutture che fra pochi anni non dovrebbero più servire? E c’è il rischio anche di dare il via a nuove trivellazioni, che, oltre a inchiodarci di nuovo al gas, comunque non saranno disponibili prima di due o tre anni, potranno sfruttare risorse scarse e dipendono da concessionari privati che vendono ai prezzi di mercato. D’altra parte, si continuano a mettere mille ostacoli alle rinnovabili, si sottovaluta l’impatto che serie politiche di efficientamento energetico potrebbero avere molto rapidamente (con le attuali tecnologie una casa può consumare 10 volte meno energia) e, per un atteggiamento miope del MEF, si rischia di mandare sul lastrico migliaia di imprese con i saliscendi del super-bonus edilizio, che certo va modulato e adattato, ma non abolito.
Eppure, è da febbraio che le imprese riunite in Elettricità Futura dicono di avere la capacità di realizzare un piano straordinario di istallazione di eolico e solare, ma il governo non ha dato seguito, semplificando davvero le pastoie burocratiche che ancora le bloccano; le comunità energetiche potrebbero essere una realtà davvero rivoluzionaria, ma non cadono dal cielo, hanno bisogno di risorse e organizzazione, altrimenti si rischiano frodi e improvvisazioni; ci vogliono risorse e organizzazione anche per risolvere lo scandalo del 40% di risorse idriche sprecate e per correggere e rendere più stabile il super-bonus edilizio, eliminando per esempio la possibilità di finanziare caldaie a gas.
Si moltiplicano proposte e appelli, ogni giorno vengono fatti annunci su tecnologie e innovazioni verdi; ma la realtà è che molta politica e gran parte dei media continuano a non credere davvero che se non invertiamo entro la fine del decennio la tendenza alla crescita delle emissioni e se non cambiamo radicalmente le priorità di investimento, spostando sempre più risorse da ponti, gasdotti e autostrade verso la gestione delle acque, sistemi più efficienti di raffreddamento e riscaldamento degli edifici, dissesto idrogeologico, una agricoltura più sostenibile e una mobilità meno inquinante saremo travolti nel vero senso della parola dal clima impazzito, come già sta succedendo in tante parti del mondo.
E questo scetticismo riguarda soprattutto la destra, oggi maggioritaria nei sondaggi in vista delle elezioni e tradizionalmente climato-scettica oltre che amica di Putin e Orban. Più che le minacce di un ritorno improbabile al fascismo, a me pare che i rischi maggiori di un governo a guida Meloni-Salvini stiano proprio, oltre che in una visione reazionaria in materia di diritti, in un atteggiamento negazionista sul clima e scettico sulla legittimità delle leggi europee. La sua probabile vittoria mette infatti a rischio anche la coesione sulle difficili scelte che attendono la UE e soprattutto alla finalizzazione del processo legislativo europeo sulle direttive del “Fit for 55%”; questo pacchetto legislativo comprende nuovi obiettivi di risparmio energetico e rinnovabili, di certo non prioritari per una Destra la cui leader ha recentemente detto che la transizione ecologica non si fa con target vincolanti e che il PNRR deve essere rivisto proprio nelle parti che concernono il Green Deal, al fine di finanziare trivelle e gasdotti.
Insomma, nonostante non si possa dire che il governo Draghi abbia posizioni “ambientaliste”, di certo un governo Meloni segnerebbe una svolta fossile molto pericolosa non solo per l’Italia, ma anche per il Green Deal europeo. Pensiamoci quando andremo a votare il 25 settembre.