Possiamo immaginare un prima e un dopo nella vita del generale Carlo Alberto dalla Chiesa: lo spartiacque è la sua scoperta del covo brigatista di Milano in via Monte Nevoso. Prima di allora era stato un ufficiale molto ambizioso, dal rigore sabaudo – era nato a Saluzzo (Cuneo) ma era molto legata alla città paterna, Parma, dove è sepolto – convinto sostenitore dell’uso investigativo degli infiltrati, ne usò diversi anche per destrutturare i nuclei brigatisti. Il più famoso è il (finto) frate Mitra che stanò nel lontano ‘74 Renato Curcio e Alberto Franceschini a Pinerolo, si salvò miracolosamente Mario Moretti per un fatale ritardo all’appuntamento. Da allora divenne lui il capo brigatista e la musica cambiò un po’ nelle Brigate rosse: il ricorso all’uso delle armi non era più una variabile dipendente da contesti e analisi. Divenne indipendente.

Nel ‘75 il generale lo fa seguire e fotografare mentre va a Catania con Barbara Balzerani e nel ‘77 non blocca la fuga dal carcere di Treviso di Prospero Gallinari, che di sicuro neanche si accorse di essere osservato e facilitato, con l’intenzione di seguirne le tracce (lo raccontò il ministro dell’Interno Rognoni) ma qualcosa deve essergli andato storto se l’anno dopo Gallinari era a via Fani il 16 marzo. Attivissimo e dal pugno duro, soprattutto nella gestione delle carceri, si incuriosisce alla P2 alla quale è iscritto suo fratello Romolo: di lui viene trovata solo una richiesta di iscrizione.

E’ certo invece il suo congelamento durante i 55 giorni del rapimento Moro. Il suo nucleo è stato sciolto da poco, i suoi uomini vengono chiamati a Roma ma passano i pomeriggi al cinema (lo dissero loro). Poi nell’agosto di quell’anno (‘78) succede qualcosa: forse è già riuscito a sapere qualcosa sul covo di Milano quando incontra Andreotti, questi in vacanza, e riceve il via libera per la gestione di un nucleo antiterrorismo che risponde solo al ministero dell’Interno: nessuno altro. Super-poteri. Neanche due mesi dopo è dentro l’appartamento milanese dove la Brigate rosse tengono il loro archivio.

C’è anche il Memoriale di Aldo Moro (solo in parte ma ancora non si sapeva, il resto verrà trovato nell’ottobre del ‘90). Da allora parte la caccia alle carte. Una ricerca spasmodica, affannosa, diremmo disperata da parte del generale. Il capitano Arlati, che ha eseguito la perquisizione insieme ad altri, ha testimoniato che il generale Umberto Bonaventura durante la perquisizione sottrasse una parte delle carte portandole a dalla Chiesa: questi andò personalmente alle due di notte di quel giorno da Franco Evangelisti, fedele braccio destro di Andreotti, con un malloppo di carte, 50 fogli circa. Disse Evangelisti, “erano le carte di Moro, mi disse che il giorno dopo le avrebbe portate ad Andreotti” (Testimonianza Evangelisti nel ‘93 al processo Pecorelli). Pare che Andreotti già le avesse ma come che sia da quel momento successe di tutto. Anche la scia tragica della genovese via Fracchia dove dalla Chiesa arrivò tramite Patrizio Peci, arrestato in una delle sue più note operazioni – che partì da fonti dentro la Fiat, secondo una confidenza di Giuliano Tavaroli che lavorò nel gruppo del generale.

A via Fracchia arrivarono gli uomini di dalla Chiesa, uno di loro fu ferito gravemente, ma vennero ucciso tutti i brigatisti che si trovavano all’interno, colti nel sonno, in una azione inspiegabilmente cruenta. Il procuratore della città, Massimo Squadrito, disse che avevano trovato un tesoro, cioè armi e le carte di Moro. Ma poi più niente. Se non quel saltò dal buio che riporta il generale dalla Chiesa come Prefetto nella città di Palermo.

100 giorni e boom! La mafia lo fa saltare in aria il 3 settembre del 1982 insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’agente Domenico Russo. Lo scorso giugno è morto a novanta anni il boss Raffaele Ganci, capomafia della cosca della Noce, un fedelissimo di Totò Riina. Aveva 90 anni e scontava in carcere diversi ergastoli tra cui quello per l’uccisione di Carlo Alberto dalla Chiesa, tra i killer del commando che uccise c’era anche Calogero Ganci, figlio di Raffaele.

Durante il suo breve mandato il prefetto diede forti segnali di sapere come affrontare il suo lavoro, disse ad Andreotti che non avrebbe tenuto conto del suo bacino elettorale. Fu odiosa e terribile la sfida mafiosa di quei colpi di kalashnikov alla comunità cittadina e all’intero Paese. Ma quel furto nella cassaforte del generale nella sua residenza a Villa Whitaker ancora oggi impone di chiederci: per conto di chi hanno agito Ganci e i suoi sodali?

Ps: bene la Rai (una volta tanto) che ha sospeso la messa in onda dello sceneggiato in onore del generale applicando la par conditio (la figlia Rita è candidata con Forza Italia). Sarebbe insopportabile la minima possibilità, anche ipotetica, che quelle tragiche morti possano influenzare il voto. Davvero inammissibile.

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