La ricerca di identità, di riconoscimento, e in sostanza di amore. Riaprendo le ferite del passato per tentare di costruire un futuro migliore. Monica è il secondo capitolo di una trilogia “esplorativa” al femminile a firma del talento di Andrea Pallaoro, cineasta trentino residente da decenni negli Stati Uniti. E sigla anche la sua terza partecipazione alla Mostra veneziana dopo l’esordio Medeas (2013) in Orizzonti e Hannah (2017) in concorso. Come, ma ancor più radicalmente rispetto ai precedenti, il film intercetta le dinamiche di un disagio psicologico dovute a un vissuto problematico, intessute nelle relazioni famigliari e nel non facile inserimento nella comunità di riferimento. E lo fa con un cinema di ricerca linguistica già capace di identificarsi in sguardo, in cui ogni dettaglio messo in scena o evocato fuori campo si traduce in gesto rivelatorio.
Del resto Pallaoro è già un autore riconoscibile e stimatissimo, nonostante abbia solo 40 anni, ed è straordinario come nel Paese dove tutto è urlato e frenetico riesca a distillare un cinema di rigori, silenzi e soprattutto di emozioni che si prendono tutto il tempo necessario per emergere e scolpirsi nella memoria. Un cinema che non è difficile accostare allo sguardo maestro di C. T. Dreyer. Che Monica, la sua “eroina moderna”, sia un personaggio transessuale diventa pertanto quasi irrilevante. Interpretata in maniera sublime dall’iconica attrice trans Trace Lysette, Monica è una giovane donna bella e disinvolta che dalla California torna alla casa paterna per un’emergenza legata alla salute della madre, Eugenie (Patricia Clarkson, sempre magnifica). Qui è chiamata a fare i conti con una famiglia che l’ha abbandonata mentre sceglieva le proprie mutazioni esistenziali, ma con la quale è pronta a rimettersi in gioco.
“Monica è una donna che perdona, una rivoluzionaria dei nostri tempi” spiega Pallaoro che sottolinea il non facile casting per trovare l’attrice giusta ad incarnarla, “oltre un anno di ricerca, ma quando è apparsa Trace non ci sono più stati dubbi che il ruolo sarebbe stato suo”. Da parte sua, Lysette ha abbracciato la sceneggiatura letta sul finire del 2016 con la consapevolezza di avere l’occasione finalmente di portare “un personaggio trans al centro di una storia, e non come spalla patetica in un affresco di desolazioni”. Nel tempo precedente le riprese – gestito con rara sapienza preparatoria – si sono create le giuste relazioni tra le interpreti che sono state in grado, poi, di restituire quelle affinità elettive informate nel film, opera in formato 1.2:1 “che esalta la catarsi, la dipendenza reciproca fra loro e aiuta l’esplorazione del rapporto tra in e fuori campo così come il mondo esterno ed interno, ovvero fisico e psicologico”. Il viaggio reale e simbolico di Monica verso le proprie radici diviene in sintesi il sintomo di una necessità universale per il recupero di effetti ed affetti lasciati nella sospensione del vivere, destinati a ricomporre un mosaico organico di un’identità alla ricerca disperata di tolleranza, fratellanza, amore filiale, e in sintesi di quella felicità di cui ciascuno ha diritto, ovunque essa possa trovarsi.
Per quanto a detta di Pallaoro, “tutti i personaggi dei miei film appartengono alla mia vita o a quella delle persone a me care”, Monica sembra incarnare una creatura senza precedenti ed esprime un percorso evolutivo assolutamente originale nel cinema contemporaneo, informato più sulle domande che non sulle risposte, come insegna la migliore espressione artistica di sempre.