Se dopo una decina di minuti di Ti mangio il cuore, quando Francesco Patanè ed Elodie si scambiano sguardi arrapati davanti a un affollato sagrato vi sembra di scorgere uno spot di Dolce&Gabbana; e se dopo una ventina di minuti del medesimo film quando i medesimi attori finiscono avvinghiati in mezzo a spettacolari saline vi sembra di assistere ad un altro spot di Gabriele Muccino non più per la Regione Calabria ma per la regione Puglia, ecco sappiate che il senso di déjà vu è comune, anzi condiviso. Per carità. Nessuno discute la buona volontà di Pippo Mezzapesa, e ancor di più le ambizioni produttive di Indigo e Rai Cinema, ma di svolazzamenti alla Icaro nel cinema “di genere” italiano ne accadono ogni due per tre (certe peripezie dei Manetti Bros; tante derivazioni dall’albero Gomorra-Suburra, ecc…). Ti mangio il cuore – in Concorso a Venezia 79 ma nella sezione Orizzonti – è uno di questi. Faida sanguinaria tra due famiglie criminali (Malatesta e Camporeale, con terzi intrusi i Montanari) della cosiddetta “quarta mafia” del Gargano, il film di Mezzapesa mescola echi di cronaca nostrana (il film è tratto dal libro inchiesta di Bonini e Foschini edito da Feltrinelli), melodramma passionale con un po’ di sesso animalesco, pistolettate e mitragliate con figure sparse. La confezione è quella da bianco e nero in cui pare sempre di vagolare nell’inverno del nostro scontento.
Del resto la drammaturgia à la Shakespeare è evidente proprio nel plot che dovrebbe girare come una trottola per due ore di film rinfocolando di continuo gli omicidi tra clan: Andrea, giovane e non proprio sanguinario erede dei Malatesta (Patanè) è stracotto di Marilena, focosa e strafottente moglie (Elodie) del boss (nascosto) dei Camporeale. La relazione tra i due, già molto consumata con foga, non va a genio al capofamiglia dei Malatesta (Tommaso Ragno, qui carmelobeneggiante) che non vuole sentire parlare minimamente di mescolanze di sangue con i rivali. Ma al ragazzotto la fotta non passa proprio, anzi si consuma e si placa solo quando la donna diventerà prima clandestinamente poi ufficialmente sua moglie sovvertendo e amplificando decenni di guerra tra clan. A sistemare apparentemente la questione tra le due famiglie, che cominciano a decimarsi con attentati crudeli e spietati, dove le vittime vengono sfigurate o date in pasto agli animali, toccherà ai Montanari, capitanati nientemeno che da Michele Placido, unico vero faro performativo dell’opera, una strana mediazione. A questo punto va preso di petto il desiderio emulativo da gangster movie modello Padrino. Perché all’improvviso, come per il Michael Corleone/Al Pacino nel film di Coppola, piomba in scena la trasformazione repentina di Andrea da ragazzotto dall’impeto ormonale a killer sadico accecato materialmente dal sangue sugli occhi. Sarà stato lo spirito della madonnina contesa tra Camporeale e Malatesta, ma l’agnizione che caratterizza la svolta centrale del racconto si consuma per inerzia, senza attingere o svilupparsi in un’accorta drammaturgia del tragico.
Del resto quando l’azione criminale, il grand guignol, l’eccesso violento di per sé, ma anche solo il ritmo di alcune azioni di massa tra campi e controcampi non freme e non tira, si ricorre all’accelerazione un po’ raffazzonata di frammenti nel montaggio, nonché alle note basse e stressate di strumenti ad arco sparate a volume alto. Inutile mostrare di continuo agnellini insanguinati, conigli tenuti per le orecchie o quei poveri maiali trattati da bestie indiavolate come se i personaggi si muovessero in un ambiente arcaico e violento di natura. Tutto quello che scorgiamo in Ti mangio il cuore, dal luridame delle baraccopoli brutte, sporche e cattive alla mattanza disordinata dei singoli (chi ammazza chi, perché, percome, quando), dal matriarcato che sostituisce criminalmente il patriarcato al pezzetto pop sorrentiniano prima dell’esplosione di colpi assassini, è cinema supposto ma non realizzato, che vorrebbe essere ma che non è (di Sonny crivellati di colpi alla dogana ce n’è uno solo). E dire che tra soggetto, sceneggiatura e relativa consulenza tecnica si giunge ad una specie di formazione da calcetto: Bonini, Foschini, Gaeta, Mezzapesa, Serino.
Infine Elodie. Il colpo di tacco nella partita che finisce 0 a 0. Nella parte della “femmena zoccola”, assatanata, la cantante romana esordisce popolana e magnianiana al cinema, occhioni neri rotanti e corpo sovraesposto, in un ruolo brutale, urticante, immorale, e in fondo, in mezzo a tanta disorganicità, a tanti rimandi, simbologie che con la freccia indicano qualcos’altro, si ritaglia un suo grintoso spazio facendo una buona figura.