Un atteggiamento artefatto, inutilmente serioso, vanamente alla ricerca di una presunta originalità di sguardo che non sia un espediente estemporaneo, improvvisato, assemblato agli altri così come capita per il fanalino di coda del Concorso dove si racconta la storia di Adriana/Andrea, bambina che si sente bambino nella Roma in trasformazione urbana degli anni 70
L’immensità è un film che non ce la fa mai. Anche Venezia 79 ha trovato il suo inscalzabile fanalino di coda. Indecisi tra i 60 minuti di Un couple di Frederick Wiseman che sembrano 600 e la roboante fuffa stilistica di Romain Gavras con Athena, Emanuele Crialese in un colpo solo sorpassa tutti. Il film sulla bambina che si sente bambino nella Roma in trasformazione urbana degli anni settanta, con Penelope Cruz che fa la mamma borghese dall’accento spagnolo addolorata e cornificata (impalpabile, il marito, Vincenzo Amato), e con il tripudio mortuario di Raffaella Carrà (Celentano, Patty Pravo, Johnny Dorelli) che canta e danza in tv, è uno degli oggetti filmici più inconcludenti mai visti in un Concorso da queste parti. Passi che tutti gli attori, e in particolar modo la piccola non proprio irresistibile Luana Giuliani (Adriana/Andrea) assumano fin dal primo istante una monolitica, indistinguibile espressione corrucciata che mai si modificherà per il resto del film.
Passi che banali statement/aforismi puntellino didascalicamente e a volo d’uccello la “diversità” nascosta di Adriana/Andrea (“Dentro una cosa (??) ce n’è sempre un’altra nascosta”, dice lei; o “è più importante quello che abbiamo dentro di quello che abbiamo fuori”). Ma ad un certo punto questa benedetta immensità bisognerà pur svilupparla, dargli organicità, mettergli un abito (maschile o femminile, poco importa). E invece no. Ogni volta o appare la cellula di senso “Adriana vuole essere Andrea” a dare il suo piccolo sussulto o si ripassa dal via per poi fermarsi di nuovo. Si parte con il simbolismo a buon mercato della sequenza iniziale dei fili bianchi dipanati dalla protagonista tra i panni stesi, fino a quella verso la conclusione in cui dei fili rossi (manca il verde? O cosa?) vengono srotolati dalla protagonista tra le stanze di casa a creare nientemeno che la scritta con cui si compone il titolo. In mezzo, tanti momenti irrisolti ammonticchiati qua e la (vedi i bambini che vivono nelle baracche che dicono: “Non siamo zingari, ma figli di operai” – e quindi?-; o la Cruz che apparecchia schizofrenicamente la tavola aiutata dai figli ballando al tempo di Rumore della Carrà), per arrivare a 95 lunghissimi impervi minuti, tra cui, per chi è duro di comprendonio, c’è la sequenza del fratellino che gioca coi soldatini, la sorellina con le bambole, e Adriana/Andrea con l’allegro chirurgo (sbatacchiando peraltro la pinzetta sul sensore metallico di continuo).
E se l’impianto di scrittura non prevedesse tutta questa sorprendente anonima involuzione, ecco che la regia impacciata, goffa, faticosissima di Crialese che complica ulteriormente il tutto. Ogni singola sequenza si apre con un movimento di macchina che non sa letteralmente dove andare e spesso pure cosa vuole inquadrare (il dettaglio di una strada – ma perché? – per poi arrivare ad un’automobile dove ci sono due bambini che parlano), e si chiude come se gli mancasse fiato, forza, direzione. Un atteggiamento artefatto, inutilmente serioso, vanamente alla ricerca di una presunta originalità di sguardo che non sia un espediente estemporaneo, improvvisato, assemblato agli altri così come capita. L’apice di questa messa in scena senza capo né coda sono però le meste riproduzioni dei numeri musicali e danzanti di Rumore e Prisencolinensinainciusol da parte della Cruz e della figlia in bianco e nero. Inutile ripeterlo: nascono così, come se a qualcuno fosse venuta un’idea folgorante molto pop, e poi muoiono staccate e isolate dalle sequenze che li precedono e da quelle che le seguono. Tra lo sbadiglio salutare e la necessaria occhiata alla app sul meteo per vedere se piove. Non di certo il Concorso per un Leone d’oro.