Cinema

Venezia 79, sesso (poco) e femminismo (presunto e sfatto) in Don’t worry Darling. Harry Styles? Non pervenuto

Nelle prossime 24 ore tutti gli occhi dell’industria cinematografica terrestre saranno puntati su questa prima mondiale assoluta della Hollywood che conta al Lido di Venezia

di Davide Turrini

Pensavamo fosse il film scandalo di Venezia 79 invece era… un calesse. Don’t worry Darling di Olivia Wilde, set galeotto per la stessa Wilde e per il protagonista (osannatissimo) Harry Styles, è un Truman Show convenzionale annaffiato con una abbondante e ridondante dose di annacquato femminismo. Di sesso, quello tanto sbandierato nei rumors dei mesi passati, però, ce n’è pochetto. Proprio perché è una sorta di apparentemente gioioso dono che il maschio fa alla femmina per isolarla dal resto del mondo e inchiodarla, con un devoto e soddisfatto sorriso sulla bocca, per tutta la vita a lavare e stendere i panni. Là tra le casupole eleganti di Victory, California, una cittadina sfavillante nata in mezzo al deserto, con giardinetti lindi e spazi commerciali comuni sciccosissimi, per il volere di un ambizioso capo aziendale che altri non è che un guru contemporaneo laccato e tirato (lo stagionato ma sempre spendibile Chris Pine). I protagonisti, o la coppia principale tra un’altra mezza dozzina di coppie che abitano letteralmente il set cittadina, è composta da Alice (Florence Pugh) e Jack Chambers (Harry Styles). Tanto per gradire nei primi dieci quindi minuti di film rimaniamo in casa Chambers e li seguiamo mentre con gli amici prorompono in balli molto focosi e poi finiscono a fare sesso con estrema passione. Una tale sfrenata abitudine che appena Jack torna dal lavoro, con Alice nemmeno riescono ad arrivare in camera da letto.

È lui però a coordinare i giochi offrendosi per una performance di sesso orale all’amata da capogiro. Lei tra l’altro fa rovesciare tutta la cenetta sul pavimento per poter meglio godere della bocca di del marito sdraiata sul tavolo. Insomma l’idillio affettivo pare paradisiaco. Così come nella Seaheaven nel film di Peter Weir, Victory è un luogo dove sembra che tutti compiano gli stessi gesti e azioni all’unisono come pilotati dall’alto. Si veda la serpentina di auto con Jack e colleghi che in fila indiana corrono al lavoro (il Victory Project) e le mogliettine tutte contente e profumate li salutino con la manina in coro, per poi concedersi continui cocktail in giardino, lezioni di danza comuni (“la bellezza è nel controllo”, dice la maestra di danza nonché moglie del guru) o facendo acquisti sfrenati ed eleganti in un centro commerciale superchic aperto solo per loro. A Victory ci sono solo le casette dei dipendenti, un solo bus (modello tram di una volta) e dei confini cittadini che è consigliato non superare. Tanto cosa può mancare ad una donna se soddisfatta dal sesso, dall’agiatezza economica e dal chiacchiericcio con le amiche? Eppure Alice nasconde una inconsapevole inquietudine. Dapprima ha diverse allucinazioni ad occhi aperti, poi seguendo una vicina che sembra dare di matto (vuole scappare da Victory) e che poi si suicida, Alice comincia a capire che la sua vita è stata come programmata come uno strano Matrix e che tocca a lei, se vuole vivere in maniera libera e indipendente, ribellarsi. A costo di rimetterci la vita.

Ambientato in un’atmosfera soleggiata con abiti, suppellettili, vinili e automobili anni cinquanta, Don’t worry Darling offre un mistura superficiale di generi dal thriller al fantasy e ovviamente una rivolta individuale eroica come tradizione conforme agli schemi vuole. Simboli e metafore sulla condizione sottomessa della donna si sprecano, come i quattrini per qualche effetto speciale sanguinolento e per le allucinazioni visive. Ma dopo aver grattato le buone intenzioni tematiche, il resto fa parecchia acqua. Styles offre corpo e ciuffo ad un anonimo e insignificante travet new age che antepone la carriera all’amore. La Pugh si dimena come una pazza, correndo su e giù a piedi scalzi, ma dimentica lo spessore psicologico per strada. La Wilde, in scena come raffinata e ordinatissima vicina di casa dei Chambers, arriva da buona ultima tra le sempiterne villette a schiera statunitensi dopo Lynch, Weir, Black Mirror e perfino dopo un qualsiasi filmucolo sull’Area 51, a sbandierare con fervore la bandierina de “il maschio è tossico” mentre invece Don’t worry è tutto sbilanciato sul sempiterno dilemma universale dello scontro tra ordine imposto e caos libertario. Il sottofinale con spiegone e antefatti, poi, è abbastanza mortifero. Ovviamente, Fuori Concorso. Anche se nelle prossime 24 ore tutti gli occhi dell’industria cinematografica terrestre sono puntati su questa prima mondiale assoluta della Hollywood che conta al Lido di Venezia.

Venezia 79, sesso (poco) e femminismo (presunto e sfatto) in Don’t worry Darling. Harry Styles? Non pervenuto
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