La sentenza n. 26089/2022 della prima sezione civile della Corte di cassazione è importante. Non tanto perché introduce una nuova interpretazione dell’art. 5, comma 6, del D. Lgs. n. 286/1998, che garantisce la protezione umanitaria agli stranieri presenti in Italia, ma perché consolida in modo convincente e definitivo l’orientamento già affermato dalla Corte in altre recenti sentenze (24413/2021; 7396/2021; 16369/2022).

La vicenda si è avviata con il ricorso di un cittadino sierraleonese all’autorità giudiziaria per vedersi riconosciuto lo status di rifugiato o, in subordine, la protezione sussidiaria, oppure, in ulteriore subordine, la protezione umanitaria. Sia il tribunale che la Corte d’appello di Cagliari non avevano accolto le istanze del richiedente. La Corte di cassazione, invece, pur confermando (parzialmente) il giudizio dei giudici di merito sullo status di rifugiato e sulla protezione sussidiaria, ritiene invece sussistente il diritto alla protezione umanitaria. E non tanto perché lo straniero corra rischi per la propria incolumità nel paese di origine, ma perché ha mostrato “la seria intenzione d’integrazione sociale”.

La serietà dell’intenzione, secondo la Corte, è desumibile da una pluralità di attività, come ad esempio la frequentazione dei corsi di lingua italiana oppure la presenza di un contratto di lavoro, seppur a tempo determinato. Sul punto la Corte si spinge a fare considerazioni di tipo sociologico, specificando che non si può pretendere dal cittadino straniero un contratto di lavoro a tempo indeterminato proprio quando “tale obiettivo presenta difficoltà non irrilevanti anche per i cittadini del paese ospitante”. Elementare applicazione del principio di uguaglianza, insomma.

Come già detto la sentenza conferma il recente orientamento della corte, in primis quello delle sezioni unite (sent. 24413/2022), nel quale è stato specificato che, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, esiste l’obbligo dell’autorità di operare una valutazione comparativa “tra la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine e la situazione d’integrazione raggiunta in Italia”, attribuendo a quest’ultima un peso maggiore.

Tale orientamento della Corte recepisce correttamente il dettato costituzionale sulla figura dello straniero, così come delineato dagli artt. 2, 3 e 10 della Costituzione. L’art. 2, infatti, che accoglie il principio personalista, si rivolge a ogni “uomo” garantendo ogni riconoscimento e la tutela dei diritti inviolabili, nell’ambito di un’organizzazione sociale protesa all’adempimento “dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale”. Nel concetto di “uomo” espresso da suddetto articolo sono ovviamente compresi i cittadini stranieri, sicché le disposizioni concernenti i diritti di libertà e i diritti sociali si rivolgono alla persona umana a prescindere dall’appartenenza nazionale.

Inoltre la Costituzione è fondata sul lavoro (art. 1) e di conseguenza si ispira al valore della “persona” socialmente qualificata, ossia il lavoratore (naturalmente va compreso anche chi è in cerca di lavoro). Da qui la concezione sostanzialistica della cittadinanza fornita dalla Costituzione italiana, la quale è riconosciuta a chiunque partecipi attivamente alla vita economica, sociale e politica della comunità in cui vive, senza alcuna considerazione per il Blut und Boden. Dopo questa sentenza non resta che auspicare un veloce adeguamento delle decisioni delle commissioni territoriali, delle questure e dei tribunali di merito, senza costringere gli stranieri a ricorrere in Cassazione per ottenere quanto li spetta.

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