Dal Congresso del Partito Socialista di fine ottanta alla festa dell’Unità del Partito Comunista anni sessanta. Dal Craxi Signore degli Anelli al Braibanti Signore delle Formiche. È curiosa e precisa la parabola/percorso artistico che il neorealismo cinematografico di Gianni Amelio ha preso negli ultimi anni. Un po’ come se dopo tanto mostrare gli attrezzi del mestiere arcaici e minimali utilizzati per i suoi sconosciuti dropout della storia italiana si fosse messo a togliere macro sassolini politici della storia patria dalle proprie scarpe. A Venezia 79 in Concorso per il Leone d’Oro ecco, appunto, Il signore delle formiche sul caso di Aldo Braibanti. L’intellettuale comunista piacentino, ex partigiano, poeta, drammaturgo e regista teatrale, uomo di cultura a tutto tondo, che nel 1968 a 46 anni finì a processo per “plagio” di un giovane amico, maggiorenne e consenziente. L’articolo del codice penale, oggi non più esistente, era il 603: reato improbabile nato in epoca fascista e mai utilizzato nei tribunali, trappola reazionaria azionata volontariamente per mettere a processo, nell’Italia ancora tradizionalista e conservatrice del tempo, l’omosessualità di un uomo, sventolandogli sotto al naso una pena possibile di 15 anni.
Intanto, per essere molto ma molto chiari, in Italia abbiamo un attore impressionante che si chiama Luigi Lo Cascio. A conti fatti, il migliore di tutti. Qui nei panni occhialuti, chiaroscurali, talvolta inaspettatamente aggressivi, ma anche di intima dolcezza di Braibanti. Un lavoro mimetico di un’intensità stratosferica, senza necessità di trucchi in loco o post in digitale, ottenuto apparentemente con impercettibili microespressioni – l’occhio del Braibanti che saetta e si allarga folgorando gli astanti -, pregnante e tenue gestualità, un accento emiliano che rimane abilmente sottotraccia. Insomma, un capolavoro performativo mostruoso. E questo va detto senza nulla togliere all’impianto generale dell’opera, come sempre garbata, casta, mai urlata di Amelio (allo script Edoardo Petti e Federico Fava). Il racconto oscilla temporalmente su tre piani differenti. C’è la Roma del 1965 tra i tadavvoli della festa dell’Unità dove il giornalista Scribani (Elio Germano) chiacchierando con la cugina Emma (Sara Serraiocco) introduce in scena Braibanti, poco più lontano da loro mentre declama scherzosamente versi al giovane amico, amante Ettore (Leonardo Maltese, notevole pure lui, comunque 25enne e all’esordio). Ed è lì che Aldo ed Ettore vengono sorpresi appisolati a letto insieme in una pensioncina. Agostino, il fratello più grande del ragazzo, e sua madre lo “rapiscono” all’improvviso, riportandolo in Emilia, fino a farlo “curare” in manicomio con l’elettroshock. Secondo movimento: bassa piacentina di Castell’Arquato 1959. Braibanti gestisce una scuola di teatro e un laboratorio di ceramica nel Torrione Farnese della sua città Castell’Arquato.
È lì che tra decine di ragazze e ragazzi conosce Ettore, amante del disegno, dopo aver fatto amicizia con il fratello Agostino. Tra i due nasce un rapporto che appare come quello tra un allievo e un maestro ma che si fa anche sentimento profondo d’amore. Terza tappa temporale: Braibanti alla sbarra per plagio a Roma nel 1968. Attorno all’aula di tribunale, mentre giudice, pubblico ministero (un Valerio Binasco da brividi per determinazione e cinismo) e stampa in generale mettono in scena un teatrino perbenista disumano, ecco il temerario cronista de L’Unità che ne prende oggettivamente la difesa (contro il suo riluttante burocratico direttore vagamente stalinista) e sua cugina che ne fa una battaglia di libertà civile in strada come realmente fecero i primi gruppi di Radicali Italiani dell’epoca (sorvoliamo sull’imbarazzante apparizione/carrellata sulla vera Emma Bonino come in un subliminale spot elettorale). Amelio preferisce stare sempre alla larga dall’esibizionismo en travesti Lgbtq+ (alla festa fluidissima su un terrazzo romano gay lesbico Braibanti dice ad Ettore “non sono come loro, ma sono anche come loro”), come dall’esibizionismo di corpi e copule tout court (probabile non si sia mai visto nemmeno un bacio non tanto in questo film ma proprio in tutta la filmografia del regista calabrese). Il signore delle formiche disvela così un universale e lirico filo rosso sentimentale pizzicato nelle sue corde più sociali e storiche. Visivamente regna una tinta fotografica grigio marrone dove sono le traiettorie elastiche di sguardo dei protagonisti, primi piani e appena mezzi busti, a vibrare solenni nel segnare la libertà identitaria come l’anomalia possibile dei costumi e della cultura di allora.
La rimescolata tripartizione temporale risulta un espediente costruttivo e organico, il cast spinge con sobrietà sull’acceleratore della posa un po’ retorica da cronaca dell’epoca, ne esce una specie di pamphlet risarcitorio che non mitizza Braibanti (“non voglio essere né mostro né martire”) ma che gli ridona soggettiva umanità e oggettiva verità che la storia frettolosa gli aveva negato in maniera inconsciamente colpevole (c’entrano un po’ anche i comunisti non proprio solidali con il loro ex dirigente, quando invece socialisti e radicali furono più presenti). Infine: sono tante le licenze storico narrative rispetto al caso reale anche se la requisitoria del pubblico ministero in tutta la sua disgustosa provocazione d’antan è vera nei minimi dettagli documentali. Il titolo è omaggio sia al romanzo Il signore delle mosche di William Golding, ma soprattutto dal fatto che Braibanti era, tra le mille conoscenze ed interessi, anche un appassionato e competente mirmecologo. In sala dall’8 settembre.