Alzi la mano chi non si ricorda di Silente nel film di Harry Potter. Sono tante, si vede. Ed ora alzi la mano chi si ricorda il nome dell’attore che lo interpretò. Sono meno, c’era da aspettarselo. Eppure stiamo parlando di uno dei più grandi attori del secondo Novecento, Richard Harris. Un marcantonio irlandese, famiglia contadina, campione di racquetball sui muri della spiaggia del paesello di Kilkee, poi con determinazione da “giovane arrabbiato” finisce teatrante londinese, icona popolare del cinema impegnato e d’autore anni sessanta (Io sono un campione e Deserto rosso), star assoluta del musical Camelot e di abbondanti dosi di Hollywood (Un uomo chiamato cavallo, Uomo bianco va col tuo dio, Cassandra crossing, I quattro dell’oca selvaggia) che lo resero definitivamente celebre. Come mostra il documentario The Ghost of Richard Harris – sezione Classici a Venezia 79 – la star irlandese classe 1930, morto nel 2002, fu una figura complessa, anticonformista, ribelle e dissoluta. Lo testimoniano i tre figli – Jared (oggi attore piuttosto noto Lincoln, Allied), Damian e Jamie – partendo proprio dall’ultimo luogo in cui Harris, due matrimoni e divorzi alle spalle tra gli anni sessanta e ottanta, si rifugiò da solo, morendo e impedendo alla sua ex moglie negli ultimi istanti di chiamare un’ambulanza: una stanza del Savoy di Londra. Insomma, abitudini da divo, ma tanta sanguigna presenza da uomo della strada. Proprio come quel campione di rugby consacrato da una Palma d’Oro a Cannes di Io sono un campione (nel documentario si racconta tra l’altro come fosse lui dispotico nei confronti del regista Lindsay Anderson e non il contrario). Un esordio che fulmina, segna, colloca.
Harris brucia le tappe. Con quella sua rabbia caratteriale, il fisico possente, la voce splendida che, come ricorda Vanessa Redgrave, coprotagonista di un successo poco ricordato in Italia, Camelot (1967), usava soave sul set. Harris poeta intimo e politico, autore di versi pubblicati e discussi, declamati in pubblico perfino contro la guerra in Vietnam e per pacificare il conflitto nordirlandese. Harris cantante, crooner, re delle classifiche musicali grazie al contributo del giovanissimo compositore Jimmy Webb, proprio quando la carriera al di là dell’oceano doveva ancora esplodere. Noi abituati a vederlo atletico e performativo in scena, rimaniamo sorpresi vedendolo riapparire come un Sinatra esistenzialista, alle spalle un’orchestra allargata, davanti una folla alla Elvis e le note di MacArthur Park che scivolano clamorosamente nella storia della musica. Harris uomo degli eccessi, delle sbornie che diventano malattia (l’insegnamento vero sul tema glielo fornisce Richard Burton sul set dell’Oca selvaggia), della pausa di una settimana sul set di Cromwell dove con tre amici acciuffa il jet della produzione corre ad Amburgo a prostitute (facendosi paparazzare con una certa gioia) poi in Irlanda per decine di pinte al pub migliore dell’isola, e ancora Svezia, Francia e Italia dove abborda una suora in aeroporto.
Harris che si mette a fare il cameriere in un pub per settimane, che si presenta ferito in viso dopo una rissa al Dick Cavett Show, che per farsi convincere a recitare ne Gli eroi di Telemark chiede una Rolls Royce tale e quale a quella della Regina (e i produttori gliela danno). Ma c’è anche l’aneddotica da reuccio autoritario sul set: prepotente nel scegliere lui il ciak buono sotto la pioggia o il long take sul finale ne Il campo di Jim Sheridan; il conciliabolo in roulotte da vecchio saggio con Russell Crowe, Joaquin Phoenix ne Il Gladiatore dove interpreta Marco Aurelio. Un po’ di soldi, certo, servono, diceva. “Ma voglio essere libero di vivere e di ridere”. Dirige Adrian Sibley. Nel doc oltre alla Redgrave sbucano anche Russell Crowe e Stephen Rea. La candidatura all’Oscar come miglior attore nel 1991 per Il campo viene dolorosamente sfiorata in un frammento quasi subliminale.