“Oggi le sanzioni non funzionano più. Non sono solo inefficaci. Rischiano anche di mettere in pericolo l’equilibrio dei conti pubblici negli Stati Uniti”. Lo spiega Marc Joffe, analista della “Reason Foundation”, un think tank californiano di orientamento libertarian – quindi liberista in economia, libertario sui diritti, atlantista convinto in politica estera. La posizione di Joffe mostra che in settori dell’establishment politico statunitense, anche in quelli della variegata galassia repubblicana, si fanno strada dubbi e obiezioni circa l’efficacia delle sanzioni nei confronti della Russia.
Mister Joffe, il Tesoro statunitense ha una lista di almeno 10mila tra individui e organizzazioni internazionali sottoposti a sanzioni. E la lista è destinata ad allungarsi. Perché Washington fa ricorso in modo così massiccio a questo strumento?
Le ragioni sono storiche. Da un lato, gli Stati Uniti hanno ancora l’ambizione di esercitare il controllo su vaste aree del mondo. Dall’altro però ci sono state le guerre in Vietnam, Afghanistan, Iraq, dove abbiamo perso decine di migliaia di soldati. Le classi dirigenti della politica Usa si sono convinte che il modo più comodo, meno controverso, per esercitare il controllo sono appunto le sanzioni.
Che però, già nel passato, si sono spesso rivelate inefficaci.
Quasi sempre. Prenda le sanzioni che la Società delle Nazioni impose all’Italia nel 1935 per l’invasione dell’Etiopia. Non servirono a fermare il regime fascista e anzi consolidarono l’appoggio popolare a Mussolini. Ma prendiamo anche Cuba. Sessant’anni di sanzioni Usa a Cuba non hanno liquidato il regime socialista. Anche in questo caso, hanno anzi rafforzato l’appoggio popolare al governo dell’Avana. Certo, le sanzioni hanno enormemente peggiorato le condizioni di vita del popolo cubano. Ma non hanno colpito il cuore del potere politico e hanno accresciuto il risentimento della popolazione verso gli Stati Uniti.
Veniamo alle sanzioni occidentali nei confronti della Russia dopo l’invasione dell’Ucraina. A sei mesi dall’imposizione dei primi blocchi, qual è il suo giudizio?
Partirei dal dato che riguarda la vita delle persone. Nell’insieme, mi pare che in Russia la popolazione riesca ancora a trovare ciò di cui ha bisogno. C’è stato un forte aumento dell’inflazione nei primi mesi, ma la cosa ora è in parte rientrata. Direi che lo standard di vita del russo medio non è probabilmente quello di qualche mese fa, ma non è crollato nei modi in cui Stati Uniti ed Europa speravano. Noto un’altra cosa. Le sanzioni alle istituzioni finanziarie russe non sono state davvero totali, come per esempio avvenne con l’intero sistema bancario dell’Iraq nel 1990. Alcune banche russe sono state soggette alle sanzioni. Altre no. Attenzione, non sto dicendo che ci sarebbero dovute essere più sanzioni contro la Russia. Osservo che sono state parziali e che comunque non hanno provocato quel collasso del sistema finanziario russo che ci si poteva attendere.
Peraltro in Russia hanno continuato ad affluire gli introiti per la vendita di gas e petrolio.
Questo è l’altro punto fondamentale, che riguarda le trasformazioni economiche e demografiche, quindi gli equilibri di potere globali degli ultimi decenni. I Paesi cui comunemente ci riferiamo con il termine Occidente – Unione Europea, Stati Uniti, Gran Bretagna, Canada, Australia, Nuova Zelanda – rappresentano ormai una minoranza della popolazione mondiale. Cina e India, da sole, hanno più popolazione che tutto l’Occidente messo insieme. Negli ultimi 20-30 anni, le loro economie sono cresciute a una velocità superiore rispetto a quelle occidentali. In altre parole, l’Occidente oggi è solo una parte del sistema economico mondiale. Non siamo più negli anni Ottanta, quando le sanzioni occidentali nei confronti del Sudafrica funzionavano. Ne consegue una cosa. Che, per aver successo, le sanzioni devono essere davvero globali, devono cioè essere adottate dall’Occidente ma anche dalla Cina, dall’India, dal Brasile, dall’Indonesia. Altrimenti, se Cina e India continueranno ad acquistare i prodotti energetici russi, non c’è sanzione che tenga.
Perché allora, soprattutto negli Stati Uniti, la politica continua ad affidarsi in modo così capillare a questo strumento?
Lo dicevo prima. Le sanzioni sono uno strumento comodo. Direi anche che le leadership occidentali non si sono davvero adeguate alla nuova realtà. Cerchiamo ancora di imporre la nostra volontà a livello globale, ma non funziona. A un certo punto ci si troverà di fronte alla necessità di ripensare l’intero modello.
Cosa ne pensa dell’imposizione di un price cap, di un tetto al prezzo del greggio russo?
Dubito possa funzionare. L’esperienza del passato dimostra che il tetto ai prezzi conduce a una diminuzione dell’offerta. I mercati sono sistemi efficienti e capaci di trovare il giusto equilibrio tra ciò che i consumatori sono disposti a pagare e quanto i produttori chiedono. Quindi se un governo interviene per fissare un tetto al prezzo, distorce la capacità equilibratrice del mercato e l’esito probabile è appunto la carenza di approvvigionamenti. Non credo sia una gran idea.
Lei ha scritto che le sanzioni potrebbero anche mettere a rischio la stabilità dei conti pubblici statunitensi. Perché?
Gli Stati Uniti hanno largamente beneficiato del fatto che il dollaro è la valuta di riserva globale. Ciò significa che molte delle transazioni internazionali devono essere fatte in dollari. Gli Stati Uniti hanno però anche un enorme debito pubblico. Alla “Reason Foundation” abbiamo calcolato che dovrebbe aggirarsi intorno ai 100mila miliardi di dollari. Gli Stati Uniti sono quindi costretti a finanziare il proprio debito pubblico all’estero. Se però le sanzioni si allargano e il dollaro smette di essere la valuta di riserva globale, ciò potrebbe comportare dei problemi per gli Stati Uniti stessi. Per esempio, un aumento dei tassi di interesse e più inflazione.
Nelle sanzioni rischiano ovviamente di essere coinvolte quelle aziende, tra queste le cinesi e indiane, che continuano a fare affari con Mosca, per esempio nel settore petrolifero. C’è secondo lei il rischio di contraccolpi fortemente negativi per il commercio internazionale?
Sì. Le nostre economia sono estremamente interconnesse. Tutti fanno affari con tutti. Ma se una parte deve monitorare se l’altra fa qualcosa che non piace al governo Usa, la cosa diventa un problema serio. Si tratta di una ricetta sicura per colpire il commercio e la finanza internazionali.
Un’ultima domanda, e riguarda la tenuta delle sanzioni. In Italia si avvicina la data delle elezioni e ci sono politici che chiedono la fine delle sanzioni alla Russia. In Europa non mancano le voci critiche. Gli Stati Uniti saranno capaci di mantenere l’unità della coalizione occidentale?
L’Italia è sicuramente il Paese in Europa in cui sono emerse le obiezioni più forti. Ma ogni Paese europeo è un caso a sé, con sensibilità e opinioni diverse. Direi questo, dalla mia prospettiva americana. L’Europa è destinata a subire il contraccolpo delle diminuite forniture russe in modo molto più duro rispetto agli Stati Uniti. Noi abbiamo ingenti rifornimenti di gas naturale, quindi diciamo che non rischiamo di gelare il prossimo inverno. Il caso europeo è appunto diverso. Se ci sarà un inverno freddo, se i costi dell’energia dovessero incidere sulla vita delle persone e sulle attività produttive, è possibile che il sostegno alle sanzioni crolli. Solo il tempo ce lo dirà.