“Può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non fate nulla per cambiarla.” A scriverlo è stato, il secolo scorso, Martin Luther King e questa sua frase è strettamente calzante in una vicenda, purtroppo terribile, dei giorni nostri. Lo scenario è quello della miseria e dell’analfabetismo relazionale che affligge le giovani generazioni, cresciute nella confusione immorale tra reale e virtuale: una ragazza di 23 anni commenta e rilancia un video postato online nel quale sono ripresi gli abusi sessuali di gruppo subìti da un giovane disabile. Il suo commento: “Troppo forte raga, quell’altro gli sta facendo pure il video”.

L’abisso di orrore senza fine resta comunque, ma in questo caso c’è da registrare una novità importante sul piano legale: un recente pronunciamento della Corte di Cassazione ha stabilito che, in caso di violenza sessuale di gruppo, è considerato “partecipe” anche chi assiste e plaude alla registrazione video dell’abuso. La giovane “commentatrice” è stata dunque accusata di violenza sessuale, un precedente molto importante.

Contro questa ipotesi il legale della giovane, l’avvocato Antonio Larussa, aveva presentato ricorso alla suprema Corte sostenendo che il comportamento della sua assistita, della quale a suo avviso non era certa la presenza al momento dell’abuso, non era “di istigazione”, ma al massimo si trattava di “una mera adesione morale a un progetto criminoso altrui, come tale penalmente irrilevante”. Una tesi che, anche se ovviamente in diverso frangente, echeggia quella avanzata nel 2009 dall’avvocato di Berlusconi, Niccolò Ghedini, secondo cui il suo assistito non era imputabile di alcun reato nei noti fatti relativi alle cene eleganti perché mero “utilizzatore finale”.

Insomma: se c’è di mezzo un reato, qualunque esso sia, e tu non hai iniziato o partecipato attivamente allo stesso non sei in alcun modo responsabile. Responsabilità è in questo frangente, non soltanto un sostantivo, ma un concetto fondativo e spartiacque per la reale capacità di convivere insieme tra esseri umani e per ciò la pronuncia della Cassazione assume un significato molto importante.

Il fatto rilevante del pronunciamento è, come scrivono i giudici, che “l’indagata è chiamata a rispondere non di concorso in violenza sessuale di gruppo, ma di violenza sessuale di gruppo”. Questo dal momento che lo stesso reato per come è stato “disegnato” non comporta “la necessità che ciascun compartecipe ponga in essere un’attività tipica di violenza sessuale”: basta anche che sia uno solo del “branco” a realizzare o minacciare l’abuso. In altri termini – spiega la sentenza numero 32503 depositata dalla terza sezione penale – la realizzazione di un contributo “morale” da parte del concorrente nel reato che non realizza l’azione tipica, ossia lo stupro, e che si trova “sul luogo e nel momento del fatto”, costituisce “una condotta di ‘partecipazione’ punita direttamente ai sensi dell’art.609 del codice penale”. Per la suprema Corte la giovane “non solo non si è dissociata dalla condotta realizzata” da uno del branco, “condotta che era ancora in corso, posto che in quel momento si stava registrando il video”, ma ha rafforzato nei confronti di costui l’intento di usare violenza alla persona offesa peraltro portatore di deficit cognitivo”.

Nuovamente il concetto di responsabilità, emerso in altre nostrane tristi vicissitudini, come quelle degli insulti via social, per fare solo un esempio, denunciati per fortuna dalla ex presidente della Camera Laura Boldrini: anche in questo caso alcune delle persone indagate avevano provato a discolparsi dicendo che si trattava “solo” di parole, magari (adducendo questa come attenuante) dettate dalla rabbia e da svariati problemi del momento. Sempre nel secolo scorso lo statista Edmond Burke disse che perché il male trionfi è sufficiente che le persone buone rinuncino all’azione. Nel caso della ragazza che plaude al video c’è chi potrebbe asserire che, eccetto in questo sconvolgente frangente, trattasi di brava persona. Sarebbe urgente che le venisse segnalata l’ammonizione di Elie Wiesel, sopravvissuto all’olocausto: “Prendi posizione. La neutralità favorisce sempre l’oppressore, non la vittima. Il silenzio incoraggia sempre il torturatore, non il torturato.”

Stanley Milgram, ragionando sugli esiti dell’esperimento di psicologia sociale del 1961, nel quale un gruppo di persone fu messa alla prova davanti ad una situazione di abuso (da qui il magnifico film The experiment) annotò “quanto sia facile ignorare la responsabilità quando si è soltanto un anello intermedio in una catena di azioni”. L’auspicio è che questo pronunciamento apra la strada a una seria e urgente riflessione su come, per dirla con la poetica di De André, sulla violenza sessuale – sempre e per quanto si possa pensare di essere assolti – se la si asseconda, giustifica e addirittura la si celebra e istiga si è comunque coinvolti. E responsabili.

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