Le concessioni demaniali previste nel piano spiaggia di Scilla? Le decide la ‘ndrangheta che nella cittadina tirrenica, in provincia di Reggio Calabria, conta più di sindaco e assessori. Non è un caso se il prefetto Massimo Mariani il mese scorso ha inviato proprio lì la commissione d’accesso per verificare eventuali infiltrazioni mafiose. Le motivazioni sono tutte nelle carte dell’inchiesta “Nuova linea” contro i Nasone-Gaietti, che si inserisce nell’orbita della più potente famiglia Alvaro di Sinopoli. Su richiesta del procuratore Giovanni Bombardieri e dei sostituti della Dda Walter Ignazitto, Nicola De Caria e Diego Capece Minutolo, il giudice per le indagini preliminari Sabato Abagnale ha emesso un’ordinanza di custodia cautelare: 18 indagati sono finiti in carcere. Per altri quattro, invece, sono stati disposti gli arresti domiciliari.

Tra questi c’è anche il consigliere comunale Girolamo “Gigi” Paladino, accusato di concorso esterno. È stato fissato, inoltre, l’interrogatorio per il responsabile dell’Ufficio tecnico del Comune Bruno Doldo, oggi in servizio alla Città metropolitana. Secondo i pm, avrebbe confezionato un bando ad hoc per favorire alcuni imprenditori vicini ai clan e per questo è indagato con l’accusa di turbativa d’asta che rischia di costargli la sospensione dal lavoro per 12 mesi. Nell’inchiesta condotta dal Reparto operativo dei carabinieri di Reggio Calabria è indagato anche il sindaco di Scilla Pasqualino Ciccone, ribattezzato “Tre culi” o “Tutù” dagli uomini del clan. La sua abitazione e il suo ufficio, stamattina sono stati perquisiti dai carabinieri. L’accusa per lui è scambio elettorale politico-mafioso.

Il Comune di Scilla è stato già sciolto per mafia nel 2018, quando Ciccone era sindaco. Dopo che il Tar lo ha dichiarato “candidabile”, nel 2020 con il sostegno di liste civiche si è presentato di nuovo alle elezioni ed è stato rieletto con il 97,84% dei voti raccolti anche dalle famiglie di ‘ndrangheta. Su come è stato possibile, l’indagato Antonino Nasone detto “la Iena” ha un’idea ben precisa: “C’è stato il giochetto, ma un giochetto della legge”.

L’inchiesta sta provocando un terremoto giudiziario nella località turistica del reggino. Il personaggio chiave è Giuseppe Fulco, nipote del defunto boss Giuseppe Nasone e reggente attuale della cosca. Scontati quasi 20 anni di carcere per mafia, Fulco è tornato nel suo “locale di ‘ndrangheta” e nel 2018 ha ripreso le redini dei Nasone-Gaietti creando “una linea di comando che avesse l’avallo della cosca Alvaro di Sinopoli”. “A Scilla si fa quello che dico io, quando lo dico io e come cazzo voglio io”. “Forse non hai capito, prima di respirare me lo dice a me”. Le regole erano chiare per tutti: dagli imprenditori, che per ogni lavoro pubblico dovevano pagare la mazzetta, ai commercianti di Bagnara che, per vendere il pesce spada a Scilla, dovevano rivolgersi a Giuseppe Fulco il quale, stando alle indagini, attraverso un prestanome gestiva una pescheria e pretendeva il monopolio: “Perché qua avete confuso, qua siamo! I forestieri siete voi, noi siamo i paesani. Tu prendi il pesce e glielo puoi dare in America ma non che glielo dai a questo. Buttalo a mare, daglielo a un altro, è di Scilla, ma non a lui”. E ancora: “Allora ogni pesce spada che prendi qua, mi dai a me cento euro”.

Anche i ristoratori dovevano stare alle regole di Fulco. Nella sua pescheria e dal panificio dei Nasone erano costretti a rifornirsi di pesce e pane. Con il proprietario di un ristorante, il boss è stato esplicito: “Non vuoi il pesce? Ok prendi cento euro a settimana e me li porti”. In alcune occasioni è stato molto più duro: “Se vedo che ti prendi i pesci dai forestieri, io sparo prima a loro e poi tra io e te, noi siamo”.

I reati contestati dalla Dda vanno dall’associazione a delinquere di stampo mafioso alle estorsioni, passando per il concorso esterno con la ‘ndrangheta, la turbativa d’asta, il tentato omicidio, la rivelazione ed utilizzazione di segreti d’ufficio, il trasferimento fraudolento di valori e il traffico di armi. Anche da guerra stando alle intercettazioni: “Vi serve qualche kalashnikov? Se volete 3mila euro”. All’offerta, Roberto Vizzari detto “Mazzetta” cercava di informarsi sulle condizioni dell’arma: “Tutto automatico?”. “Tutto”. “I proiettili ce li hai?” “Si, 18 mi sembra… vi da pure quattro o cinque caricatori”.

La specialità della cosca, però, erano le concessioni per i lidi. Nell’ordinanza di custodia cautelare, il gip sottolinea come il boss Fulco e altri tre indagati, i fratelli Giovanni, Giuseppe e Rocco Paladino detti “i Farao”, “ottenevano dai dipendenti pubblici del Comune di Scilla e, quindi, da pubblici ufficiali o incaricati di pubblico servizio, informazioni relative alle procedure di evidenza pubblica per l’assegnazione di nuove concessioni demaniali marittime previste nel ‘piano comunale di spiaggia’ quando il relativo bando di gara era in corso di redazione e, quindi, coperto da segreto”. “Siamo nelle mani del signore”. È la frase della moglie di uno degli indagati che, a ogni costo, voleva vincere il bando per un lido. “O di chi ne fa le veci”. Ovviamente Fulco parlava di sé stesso, sapendo di poter usufruire “di canali privilegiati per ottenere in anteprima documenti pubblici nella fase precedente della loro pubblicazione”.

I magistrati non hanno dubbi: “Fulco riusciva anche a conoscere il valore dell’offerta economica dei concorrenti”. Grazie ai contatti nel comparto amministrativo dell’Ente, così la ‘ndrangheta “si ingeriva nella vita politica del Comune di Scilla, nonché nella procedura delle concessioni demaniali relative alla gestione dei lidi balneari”. Ogni cosca aveva il suo lido. Tra i più famosi c’era il “Nettuno” un tempo gestito dal boss Matteo Gaietti e oggi dai suoi congiunti che – scrivono i magistrati – “attraverso reiterati certificati documentali, volti ad occultare la reale titolarità, hanno eluso i divieti di legge, perseverando nella gestione di quel tratto di spiaggia”. Per gli inquirenti, infatti, si è registrato “una sorta di usucapione mafiosa del lungomare scillese, concretizzatesi nella presenza in loco dell’impresa che, a prescindere dalle denominazioni di volta in volta assunte, era l’espressione della ‘ndrina di quel territorio”.

Nonostante gli arresti delle operazioni “Alba di Scilla” e “Lampetra”, i Nasone-Gaietti hanno “continuato ad operare alacremente, infiltrandosi subdolamente nel tessuto sociale ed istituzionale della città, suscitando timori ed atteggiamenti omertosi presso la cittadinanza, dettando regole ispirate a criteri di prevaricazione ed arroganza criminale”. I voleri del boss non si discutevano. Soprattutto dopo che ha serrato le file del clan: “Chi non segue la ‘linea’ rischia seriamente la morte”. Questo valeva per i dissidenti, “quelli della Piazza” organici alla cosca, ma anche per i “forestieri”, cioè i non residenti a Scilla: “Qua ci vuole educazione, ci vuole rispetto. Chi vuole venire qua deve essere educato, corretto e pulito. Noi non vogliamo disturbi di nessuno, sennò non guardiamo niente”.

Per pm e gip, “Giuseppe Fulco assumeva costanti atteggiamenti sintomatici della volontà di sostituirsi allo Stato”. Persino l’avvocato Gaetano Ciccone, ex sindaco e fratello del primo cittadino Pasqualino Ciccone, si rivolgeva a lui per fare in modo che un soggetto pregiudicato si astenesse dal tenere comportamenti molesti come quello di far urinare il cane dinanzi alla farmacia della moglie. Stando alle intercettazioni, inoltre, “è sempre Giuseppe Fulco a dare assicurazioni al sindaco, garantendo che nessuno avrebbe attentato alla sua vita”. Il riferimento è a un’indagine di qualche anno fa quando era emerso, in una conversazione registrata dalla Dda, il possibile sequestro di Ciccone da parte di un soggetto arrestato per mafia. Al fratello del sindaco, infatti, Fulco avrebbe dato assicurazioni sul fatto che nessun atto di violenza sarebbe stato perpetrato ai danni di Pasqualino Ciccone: “Vostro fratello, se muore, muore di colesterolo, trigliceridi e magari che muore fottendo”.

A proposito della politica, i rapporti della cosca con le istituzioni erano curati da Giuseppe Maria Fontana, detto “Pino Curella”, per il quale il gip non ha accolto l’arresto. Tuttavia scrive: “È un imprenditore nel settore alberghiero, balneare e della ristorazione, titolare di fatto dell’impresa ‘Maremonti sas di Fontana Alessandra & C’ con cui gestisce lo stabilimento ad insegna ‘Lido Antares’ sito sul lungomare di Scilla”. È lo stesso lido per il quale, nel novembre 2021, il prefetto di Reggio Calabria aveva disposto l’interdizione antimafia poi sospesa dal Tar che non ha ritenuto sufficiente “la mera presenza di Fontana presso il Lido Antares in occasione di alcuni controlli effettuati dalle forze di polizia” per “dimostrare la sua qualità di gestore di fatto dell’attività riconducibile alle figlie”.

In sostanza, secondo i giudici amministrativi il provvedimento interdittivo si basava “esclusivamente sui pregiudizi a carico di Giuseppe Fontana” che così in attesa della decisione nel merito, fissata per ottobre, ha potuto riaprire il lido anche quest’estate. Eppure, nei suoi confronti, il gip scrive che l’imprenditore manteneva “strettissime e solidali relazioni con la consorteria mafiosa e, in particolare, con il suo rampante capo Giuseppe Fulco”.

E ancora: “Fontana tendeva ad atteggiarsi come una sorta di ‘Giano Bifronte’: da un lato (e pubblicamente) ‘amico’ delle istituzioni; dall’altro (e riservatamente) ambiguo sostenitore degli interessi del sodalizio mafioso, nemico dei ‘confidenti’ e prezioso consigliere del Fulco e dei suoi affiliati, sempre pronto ad offrire il proprio contributo per la causa di costoro”. Stando alla Dda, infatti, Fontana forniva il suo contributo “quando i sodali necessitavano di interlocuzioni con i rappresentanti dell’amministrazione comunale di Scilla”.

Lo faceva, secondo gli investigatori, anche con il sindaco che sarebbe stato eletto sia da “quelli della Piazza” che dalla “Nuova linea”. Tornato al Comune dopo essere stato sciolto per mafia, “Ciccone, evidentemente conscio dei rischi che corre nel relazionarsi con la ‘ndrangheta, taglia i ponti e non rispetta l’accordo stipulato prima della campagna elettorale”. Tanto basta per mandare su tutte le furie il boss Giuseppe Fulco che, a un certo punto, rinfaccia l’aiuto fornito alle amministrative del 2020: “Vedete che i miei cugini, con suo padre morto in casa, hanno votato dove dovevano votare”. In sostanza, pretendeva che “le sue richieste fossero esaudite in forza dell’appoggio elettorale fornito alla famiglia Ciccone”.

Dal risentimento alle minacce, il passo è breve “Se non mangio io, suo figlio muore di fame, lo schiaccio, gli ho detto…. Da me non deve venire nessuno! Nessuno deve venire e non dobbiamo votarlo più a questo cornuto”. I desiderata del boss riguardavano le concessioni demaniali marittime. Riferendosi sempre al sindaco, le parole del capo cosca non hanno necessità di essere interpretate: “Il ‘Tre culi’ di merda (Ciccone, ndr) se vuole… deve fare una variante al piano spiaggia… Però rompono i coglioni quando si vota, capito?… che hai rotto a fare i coglioni? Affinché ti diamo i voti? Che mi sono pentito più dei miei peccati. Guarda è una delusione”.

Il boss non esita a contrapporre la sua personale “morale” all’atteggiamento del sindaco: “Quando uno non vuole mantenere la parola, basta che non la dai. Ok? Ma che cazzo di sistema è?”. E alla fine tira le sue conclusioni e spiega al consigliere comunale Girolamo Paladino cosa ha intenzione di dire a Ciccone: “Sai che facciamo, se non mi fai lavorare, allora vuol dire che ogni mese vengo a casa tua e ci dividiamo il tuo stipendio”. Un po’ quello che pensa anche l’indagato Antonio Nasone: “Il paese lo rovina il sindaco. Se oggi siamo in questo stato, vuol dire che Pasquale ‘Tutù’ (Ciccone, ndr) è un tragediatore. Lui per guardarsi il culo lui… è da trent’anni, trent’anni che amministra”. Di una cosa il boss Fulco è convinto. Ne parla con la madre Gioia Virgilia Nasone, i carabinieri del Reparto operativo lo registrano e annotano sui brogliacci: “Si doveva votare domani! Lo vedevi a Tre Culi”.

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