di Francesco Petrelli*
Mentre i leader mondiali si interrogano su come far fronte alla crisi dei prezzi del cibo e mentre l’export di grano viene usato come arma di scambio o ricatto tra gli Stati, occorre una riflessione sulle cause reali della crescita della fame globale. Se da un lato è evidente che la crisi attuale sia stata accelerata dalla guerra in Ucraina, è altrettanto vero che a causarla e inasprirla vi siano logiche finanziarie che stanno influenzando i prezzi.
Il cibo – trattato al pari di altri beni – è diventato un asset su cui scommettere e speculare alla Borsa di Chicago, che determina il prezzo delle materie prime, soprattutto nel settore cerealicolo. In altre parole la guerra e le sue conseguenze immediate si sono inserite nelle dinamiche di un sistema alimentare globale già disfunzionale, profondamente ingiusto e disuguale. Basti pensare che i prezzi del grano erano aumentati dell’80% già tra aprile 2020 e dicembre 2021.
Ci nutriamo, in altre parole di “falsi miti” – secondo il nuovo studio pubblicato oggi da Oxfam – che ci allontanano dall’obiettivo più importante: salvare centinaia di milioni di persone e azzerare la fame entro il 2030. Perché se è vero che la media dell’inflazione alimentare nei paesi G7 come l’Italia è oggi al 10%, in paesi come Etiopia e Somalia è arrivata al 44%. Ma andiamo per gradi.
In meno di 20 anni tre crisi alimentari, ma ben poco è stato fatto
Prima dell’attuale, abbiamo assistito alle crisi dei prezzi innescate dai crolli finanziari del 2007-2008 e del 2011. Nonostante questo però nessuno è intervenuto per correggere distorsioni del mercato già del tutto evidenti. Nulla o molto poco si è fatto, per esempio, per fronteggiare le disuguaglianze sempre più estreme nei paesi e tra i paesi, lasciando crescere i profitti solo per pochissimi, con il favore di un processo di concentrazione nelle mani dei colossi dell’agribusiness (4 aziende detengono il 70% del valore dell’intero mercato alimentare). Una sola delle quattro principali aziende del settore agro-alimentare globale del comparto cerealicolo, la Cargill, ha visto aumentare i miliardari all’interno della famiglia che la controlla da 8 a 12 negli ultimi 2 anni. Patrimoni e profitti in eccesso che se venissero tassati adeguatamente consentirebbero agli Stati di avere sufficienti risorse per affrontare la crisi alimentare in atto.
Il sistema è tale che molti paesi a basso reddito producono cibo solo per l’esportazione, senza essere in grado di sfamare la propria popolazione, essendo costretti a dipendere quasi totalmente dalle importazioni di cibo da una manciata di paesi come la Russia e l’Ucraina. Due esempi su tutti sono Eritrea e Somalia, assieme ad altri 50 paesi, in gran parte poveri, che dipendono da questi 2 paesi per oltre il 30% delle importazioni di grano.
Aumentare la produzione alimentare non è la soluzione
Aumentare la produzione di cibo, come proposto da molti sostenitori dell’agricoltura industriale, a prescindere dai costi ambientali che ne deriverebbero, non aiuta ad azzerare la fame. Abbiamo quantità di cibo sufficiente a sfamare l’intera popolazione mondiale. Serve al contrario garantire una distribuzione più equa rimuovendo i fattori che determinano l’aumento dei prezzi alimentari, come l’uso fuori controllo dei terreni agricoli per scopi diversi dalla produzione di cibo. A riprova di quanto detto bastano alcuni dati: una riduzione dell’8% nell’uso di cereali destinati l’alimentazione animale nell’Unione europea basterebbe per compensare il deficit globale di grano causato dalla guerra in Ucraina. Sì perché in effetti, al di là del blocco dei canali di approvvigionamento, dallo scorso febbraio, la produzione globale di grano, secondo le previsioni, calerà (appena) da 777 milioni di tonnellate nel 2021/2022 a 771 milioni di tonnellate nel 2022/2023. Meno dell’1%!
Una transizione urgente è necessaria
La somma di queste distorsioni dimostra che l’attuale modello della divisione del lavoro e della produzione agroalimentare oltre che rigido e insostenibile, è incapace di fronteggiare shock, come guerra, crisi climatica o pandemia. Pur di fronte alla necessità di mantenere i mercati aperti, la questione della diversificazione e della varietà produttiva, del rafforzamento dei mercati locali è perciò prioritaria per garantire la sicurezza alimentare, salvare vite umane e il pianeta.
Non si tratta di sostenere forme di uscita dalla globalizzazione, ma di porre per tutti e anche per i paesi ricchi la questione della transizione verso forme di autonomia e sovranità alimentare, di sistemi più resilienti che si integrino con un commercio caratterizzato da regole anti-speculative realizzando concretamente il diritto al cibo come diritto umano fondamentale, cosi come sostenuto dalle Nazioni unite e sottoscritto dai governi di tutto il mondo, a condizione di arginare adesso gli intollerabili fenomeni speculativi cui stiamo assistendo.
*policy advisor per la sicurezza alimentare di Oxfam Italia