È terminato oggi con 14 condanne da uno a tre mesi (e 17 assoluzioni) il processo di primo grado a carico degli attivisti del “Presidio permanente no borders” di Ventimiglia, che nell’estate 2015 occuparono un’area di parcheggio sotto la pineta dei Balzi Rossi, a pochi passi dalla frontiera franco-italiana di ponte San Ludovico. È il giugno di sette anni fa, quando un gruppo di migranti decide di accamparsi sugli scogli per protestare contro l’improvvisa decisione del governo francese di sospendere l’accordo di Schengen sulla libera circolazione delle persone all’interno dell’Unione Europea.
In pochi giorni, la frontiera di Ventimiglia diventa meta di attivisti e solidali che sostengono le ragioni dei migranti, nella totale assenza di soluzioni istituzionali, i volontari si fanno carico dell’allestimento di un campeggio solidale con tende e servizi igienici, cucina autogestita e distribuzione di vestiti, servizio di supporto legale e sostegno nelle ripetute proteste alla frontiera decise in assemblea con i migranti in transito. È un movimento eterogeneo e totalmente autofinanziato, che per tre mesi gestisce e rappresenterà l’unico spazio di protezione e tutela per le persone in transito.
“We are not going back”, siamo arrivati fino a qui e non torneremo indietro, gridano i migranti che, spesso, decidono di rimandare il passaggio della frontiera per unirsi al movimento “no borders” che sostiene la libertà di circolazione, il superamento delle frontiere e la loro crescente militarizzazione.
“Il nostro è stato un tentativo di costruire un’internazionale della solidarietà – spiegano gli attivisti, ancora impegnati sulla frontiera – dove cittadini europei solidali e migranti lottavano fianco a fianco per il diritto di tutti alla libera circolazione”. Più prosaicamente, per la pubblica accusa, quella dei Balzi Rossi, sette anni fa, si sarebbe trattata di “occupazione di terreni altrui”, reato che prevede pene fino ai due anni e centinaia di euro di multa, con l’aggravante di “violenza privata” per il saltuario blocco di una carreggiata in occasione di cortei di protesta.
Delle 31 persone coinvolte nel processo, perché presenti all’alba dello sgombero del 30 settembre di sette anni fa, il giudice Francesca Minieri ha ritenuto di condannare in primo grado (con il minimo delle pene) solo le persone che l’accusa ha potuto dimostrare essere stati più a lunghi presenti all’interno del Presidio permanente.
“Si parla di reati che andranno in prescrizione – spiegano i legali degli attivisti Laura Tartarini, Emanuele Tambuscio, Claudio Novaro e Gianluca Vitale – ma andremo in appello per chiedere l’assoluzione, perché crediamo non si possa equiparare un’evidente stato di necessità motivato da ragioni solidali a un’occupazione abusiva di un terreno”.
Per i legali degli imputati, le condanne in primo grado di oggi rappresentano un esempio di “criminalizzazione della solidarietà”, perché “tra le centinaia di persone che si alternavano a portare aiuti alla frontiera” le forze dell’ordine e la Procura avrebbero deliberatamente deciso di procedere esclusivamente contro “quelli che univano alla solidarietà rivendicazioni politiche”.
Al netto della vicenda giudiziaria, a distanza di sette anni dai fatti, alla frontiera di Ventimiglia proseguono i controlli selettivi della polizia francese alle persone con tratti somatici ritenuti “non europei”, con una media di 20-30 respingimenti al giorno a causa del regolamento di Dublino che prevede la permanenza dei richiedenti asilo nel paese di arrivo.
“Processano la libertà di movimento e la solidarietà – spiegano gli attivisti che hanno atteso l’emanazione della sentenza davanti al Tribunale di Imperia – Se abbiamo commesso un reato è stato quello di creare un luogo dove si provava a stare assieme, a ostacolare gli organismi repressivi, a provvedere ai nostri bisogni, a rivendicare un’altra rotta, più umana, per chi voleva muoversi attraverso le strade del mondo. Non volevamo confini, non volevamo lager, non volevamo violenze, non usavamo guanti di lattice, non volevamo che nessuno rimanesse indietro”.
Oggi, come nel 2015, non esistono soluzioni istituzionali, il campo di transito aperto nel 2016 dalla Prefettura è stato chiuso e i migranti sono sempre accampati in soluzioni di fortuna.
Resiste una presenza solidale alla frontiera, portata avanti prevalentemente dalla Caritas, da alcune ong e dai solidali di Progetto 20k e Kesha Niya. Diversamente da sette anni fa, tuttavia, a oggi i solidali sembrano limitarsi al monitoraggio e al supporto delle persone in transito, con periodiche denunce delle ripetute violazioni ai danni dei migranti (in particolar modo donne e minori), ma scarsissimo margine di contestazione con manifestazioni pubbliche delle politiche che regolano l’immigrazione in Europa, iniziative che erano frequenti quando solidali e migranti erano riusciti a gestire insieme uno spazio di transito come la “bolla” dei Balzi Rossi che si era creata nel 2015.