Le emissioni di CO2, bestia nera degli ambientalisti, male assoluto del capitalismo, novello sterco del demonio, sono precipitate di parecchie posizioni nella scala delle priorità politiche. Di fronte alla prospettiva di rimanere al freddo e di perdere il lavoro l’opinione pubblica ha accettato senza fiatare (in totale assenza di oceaniche adunate di Friday for Future) addirittura la riapertura delle centrali a carbone. Fin quando ci si illude di poter fare gli ambientalisti a spese degli altri (senza ricorrere alla famosa allocuzione di un noto immobiliarista caduto in disgrazia), sono tutti pervasi di nobili sentimenti e di sostenibilità.

Quando si rischia di rimanere al freddo o, peggio, di non poter ricaricare lo smartphone ad ogni ora, i sentimenti lasciano mestamente il campo ai prosaici porci comodi. In definitiva il portafoglio ha ragioni che il cuore non comprende. Per di più, come nella fattoria orwelliana, tutte le emissioni di CO2 sono uguali, ma alcune sono più uguali delle altre. Ad esempio quelle prodotte da impianti industriali di solito provocano esecrazione, mentre quelle prodotte dall’allevamento di animali (in fattorie non orwelliane) raramente vengono registrate sui potenti radar dell’indignazione ecologica.

Eppure mucche, pecore, persino maiali o polli emettono CO2 in quantità ingenti dopo la digestione del cibo. L’ammontare esatto è oggetto di controversie scientifiche abbastanza virulente: secondo uno studio della Fao del 2018 le flatulenze degli animali da allevamento contribuiscono al 14,5% delle emissioni globali di CO2 (il 37% del metano), mentre un rapporto pubblicato sul Journal of Ecological Society nell’edizione del 2020-2021, intitolato “L’allevamento è la principale causa del cambiamento climatico”, stima che tale percentuale sia almeno l’87%. L’Environmental Protection Agency degli Usa calcola a sua volta che un quarto delle emissioni di metano negli States proviene dagli allevamenti di bestiame.

A ottobre 2018, la rivista Nature pubblicò uno studio in cui avvertiva che per nutrire le previste 9,2 miliardi di persone viventi sulla Terra nel 2050 – e al tempo stesso centrare gli obiettivi della riduzione delle emissioni come previsto dall’accordo di Parigi sul clima – il mondo dovrà rassegnarsi a diete vegetali, oltretutto dopo aver adottato tecnologie agricole più sostenibili. Lo studio spiegava “…che nessuna singola misura è sufficiente per mantenere questi effetti all’interno di tutti i confini del pianeta contemporaneamente e che saranno necessarie misure sinergiche per mitigare sufficientemente il previsto aumento delle pressioni ambientali“.

Tali conclusioni vennero confermate dalla commissione Eat-Lancet che a sua volta lanciava un appello per una svolta radicale nelle abitudini dietetiche degli umani. Tuttavia le misure prese finora nel settore agricolo per centrare gli obiettivi della decarbonizzazione sono state modeste, al contrario di quelle messe in cantiere per il settore automobilistico, elettrico o navale. Fa eccezione la Nuova Zelanda, che sotto la pressione di organizzazioni ambientaliste, propone di tassare gli agricoltori in base alle emissioni di gas serra, sia quelle delle attrezzature agricole, sia quelle di bovini e ovini (che in Nuova Zelanda per numero sopravanzano di gran lunga gli umani).

In Italia i Verdi e i loro fiancheggiatori, sempre pronti ad alzare il ditino fresco di manicure, dall’alto del loro piedistallo moraleggiante, su questo tema glissano. Preferiscono alimentare le zizzanie contro i rigassificatori, i termovalorizzatori, i gasdotti, le centrali nucleari, il consumo di suolo, l’estrazione di petrolio, e spesso anche pali eolici o pannelli solari, insomma qualsiasi bersaglio che, eccitando le pulsioni delle folle nimby, possa rivelarsi mediaticamente ed elettoralmente proficuo.

Al contrario, antagonizzare le potenti lobby di Coldiretti (ferocemente contraria al fotovoltaico), Confagricoltura, allevatori e interessi assortiti sarebbe un suicidio politico. Per non parlare dell’ostilità della gente comune quando le si impone di rinunciare a bistecche, cotolette e parmigiano. Non a caso la Nuova Zelanda è dall’altra parte del mondo. Geograficamente e politicamente.

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