Nessuno rimpiange il tempo dello scisma da Roma con la nascita della Chiesa anglicana. Era il 1533 e sul trono britannico sedeva Enrico VIII, mentre su quello di Pietro c’era Clemente VII. Inevitabile fu la scomunica papale nei confronti di quel sovrano che si fece capo della sua Chiesa cristiana. Un ruolo che ora, con la morte di Elisabetta II, è passato immediatamente a Carlo III. Papa Francesco gli ha inviato un telegramma di cordoglio per la morte della Regina in qualità di nuovo Re d’Inghilterra e anche di capo della Chiesa anglicana.

Un ruolo quest’ultimo puramente formale e che non implica alcuna reale guida spirituale dei 25 milioni di fedeli di questa confessione cristiana. Compito affidato, invece, all’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby. Nessun passaggio di consegne, dunque, e nessun cambio sostanziale nella guida della Chiesa anglicana con la morte di Elisabetta. Solo un semplice e rapido passaggio formale.

I rapporti tra Welby e Bergoglio sono ottimi e contraddistinti da una sincera amicizia e da una solida collaborazione, soprattutto in alcune missioni di pace in Paesi in guerra, in particolare in Sud Sudan. Significativo è anche il loro impegno per la custodia del creato che li ha visti firmare un appello congiunto e urgente per il futuro del pianeta insieme con il Patriarca ecumenico di Costantinopoli Bartolomeo I. Un altro appello congiunto, firmato stavolta con il moderatore della Chiesa di Scozia, Jim Wallace, è stato indirizzato proprio ai leader del Sud Sudan, in attesa di compiere insieme un viaggio di pace nel Paese. Viaggio che era stato programmato nel luglio 2022, ma poi rimandato a causa delle condizioni di salute del Papa.

Nel 2021, dopo aver incontrato Francesco, Welby dichiarò ai media vaticani: “Ritengo che uno tra gli sviluppi più interessanti del dialogo ecumenico negli ultimi anni sia stato che abbiamo imparato a non dare lezioni e a non dire ‘abbiamo questo e ora ve lo insegneremo’, ma piuttosto ‘abbiamo bisogno di imparare da voi’. Pertanto, penso che sia così che dobbiamo comportarci gli uni verso gli altri, ossia che entrambi abbiamo bisogno di imparare dall’altro. Mi augurerei di imparare molto dalla profonda saggezza della Chiesa cattolica e, d’altro canto, di avere qualche contributo da dare. Ma nella grazia di Dio, aspettiamo e vediamo”.

Nel 2009 Benedetto XVI firmò la costituzione apostolica Anglicanorum coetibus circa l’istituzione di ordinariati personali per anglicani che entrano nella piena comunione con la Chiesa cattolica. “In questi ultimi tempi – scrisse Ratzinger – lo Spirito Santo ha spinto gruppi anglicani a chiedere più volte e insistentemente di essere ricevuti, anche corporativamente, nella piena comunione cattolica e questa Sede Apostolica ha benevolmente accolto la loro richiesta. Il successore di Pietro, infatti, che dal Signore Gesù ha il mandato di garantire l’unità dell’episcopato e di presiedere e tutelare la comunione universale di tutte le Chiese, non può non predisporre i mezzi perché tale santo desiderio possa essere realizzato”.

Benedetto XVI, inoltre, ricordò che “l’unica Chiesa di Cristo, che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica, sussiste nella Chiesa cattolica governata dal successore di Pietro, e dai vescovi in comunione con lui, ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità, che, quali doni propri della Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica. Alla luce di tali principi ecclesiologici, – aggiunse Ratzinger – con questa costituzione apostolica si provvede ad una normativa generale che regoli l’istituzione e la vita di ordinariati personali per quei fedeli anglicani che desiderano entrare corporativamente in piena comunione con la Chiesa cattolica”. Un provvedimento che non fu accolto come un atto ostile al mondo anglicano, bensì come un ulteriore segno di dialogo e riconciliazione per dimenticare le avversità del passato.

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