Salvador Allende, socialista, vince le elezioni nel 1970 in Cile con il 36% dei voti e come leader della coalizione Unidad Popular. Il nuovo governo promuove un’ampia politica di riforme sociali ed economiche per superare alcune ingiustizie sociali: su tutte, le terribili condizioni di vita dei minatori che lavorano per le grandi multinazionali americane; ma anche le condizioni della popolazione rurale e delle periferie urbane. Siamo nel contesto della piena Guerra Fredda e questo tipo di riformismo attivo e radicale aliena ad Allende le simpatie statunitensi e quelle della borghesia nazionale. È una situazione sociale turbolenta cui, nel 1973, si accompagna una forte crisi economica. Il generale Augusto Pinochet, quindi, si pone alla guida di un golpe militare e l’11 settembre il palazzo presidenziale della Moneda, nella capitale Santiago del Cile, viene bombardato mentre l’esercito, l’aviazione e la Marina prendono il controllo anche delle altre principali città del Paese. In un ultimo, drammatico messaggio radiofonico alla nazione dall’interno della Moneda Allende scandisce: “E’ possibile che ci schiaccino. Ma il domani sarà del popolo, sarà dei lavoratori. Pagherò con la vita la difesa dei principi che sono cari a questa Patria”. Poco dopo si spara. Ma che significato ebbe quel golpe reazionario? Ilfattoquotidiano.it ne ha parlato con la professoressa Benedetta Calandra, che insegna Storia e Istituzioni delle Americhe all’Università di Bergamo.
Professoressa Calandra, cosa ha rappresentato questo drammatico passaggio nella storia del Cile e non solo?
“Il settembre del 1973 rappresenta ancora un momento di profonda frattura per la storia cilena e la sua rilevanza al contempo trascende i confini nazionali: le sinistre occidentali guardavano con estremo interesse all’esperimento del presidente Allende e l’ampia alleanza proposta dalla Unidad Popular. Nel fumo che esalava dal palazzo presidenziale in fiamme le forze politiche hanno letto il naufragio della via pacifica e legale alla rivoluzione socialista e i rischi insiti nella sfida agli interessi delle oligarchie locali e filostatunitensi, il golpe è riconducibile a fattori endogeni ed esogeni. La dittatura, con anticipo rispetto alla Gran Bretagna di Margareth Thatcher, sperimenta inoltre un modello economico ultraliberista fortemente voluto dal governo cileno, frutto di una decennale collaborazione tra l’Università Cattolica di Santiago e quella di Chicago. Rade al suolo il progetto politico, sociale e culturale che lo aveva preceduto e favorisce altri settori sociali. Al centro della scena non ci son più le comunità disagiate urbane e rurali, i contadini, gli operai, i gruppi organizzati di donne e studenti bensì medi e grandi imprenditori tendenzialmente affiliati al capitale estero, oligarchie locali e imponenti gruppi finanziari, in un sistema fortemente conservatore e patriarcale. Il tessuto dell’associazionismo popolare viene lacerato, i dissidenti esiliati o eliminati fisicamente, l’apparato partitico e mediatico messo sotto stretto controllo, quando non smantellato del tutto. La transizione alla democrazia cilena ha dovuto fare i conti con i residui autoritari e con la persistenza, seppur corretta, del sistema economico precedente.
Domenica scorsa è stata bocciata la bozza della nuova Costituzione cilena, che avrebbe portato al superamento di quella di Pinochet. L’ambizione del nuovo progetto costituzionale emerge sin dal preambolo del testo bocciato che proclamava: “Il Cile è uno stato sociale e democratico, fondato sullo stato di diritto. È plurinazionale, interculturale, regionale ed ecologico”. Quali possono essere le spiegazioni del fallimento dopo il trionfo del presidente Boric dello scorso anno?
Tra le diverse letture di questo risultato (inaspettato per la sua entità, ma previsto nella sostanza) mi ha colpito quella di alcuni storici cileni che hanno rilevato la problematicità della dimensione plurinazionale e regionale, a cui si ambiva nel testo. Questo tratto, pur funzionando in altri contesti latinoamericani, se realizzato in Cile rappresenterebbe una decisa discontinuità, non voluta da tutti, rispetto alle radici profonde di uno Stato fortemente centralizzato. Inoltre, alle iniziali aspettative di coloro che (volontariamente) si erano espressi a favore di un’Assemblea costituente dopo le violente proteste del 2019, è subentrata ora (con voto obbligatorio) una campionatura di votanti non necessariamente corrispondente: più moderata e talvolta anche spaventata da una campagna mediatica pervasiva che ha dipinto come insidiose una serie di possibili riforme previste dalla nuova carta costituzionale, tra queste la tutela di un sistema di giustizia indigeno.
E Boric?
Boric incarna l’eredità della protesta sociale, una generazione giovane che conquista la visibilità politica e non s’identifica più con lo spettro partitico dei decenni precedenti, a prescindere dal colore. Tuttavia, esiste anche un altro Cile, che al primo turno delle presidenziali, nel novembre del 2021, aveva decretato la superiorità numerica del candidato ultra conservatore, Kast, tenendo tutti col fiato sospeso sul secondo turno. A oggi, verosimilmente, Boric dovrà non solo recuperare i numerosi critici del metodo adottato dalla Costituente – più che del testo stesso – che si sono sentiti tagliati fuori, ma anche rinegoziare nuove forme di mediazione con le forze politiche tradizionalmente presenti nello scenario cileno – forze in cui gran parte della popolazione non si riconosce, eppure ancora decisamente influenti.