La figlia del celebre Giuliano Gemma è protagonista di Vera, film diretto da Tizza Covi e Rainer Frimmel che mescola suggestioni autobiografiche dell’attrice. World war III inizia come un film da realismo sociale, poi subito si tramuta in commedia nera e infine si scopre un thriller di livello altissimo annegato in mezzo alla fanghiglia e alle macerie del campo di concentramento fittizio
“Dedico questo premio ai due uomini più importanti della mia vita, mio figlio Maximus e al mio bellissimo papà, Giuliano Gemma”. Chi l’avrebbe mai detto? Vera Gemma regina incontrastata del podio del Festival di Venezia 2022. Parliamo della sezione Orizzonti, e non del Concorso, ma il prestigio è altissimo uguale. La figlia del celebre Giuliano Gemma è protagonista di Vera, film diretto da Tizza Covi e Rainer Frimmel che mescola suggestioni autobiografiche dell’attrice con lo sviluppo narrativo di una storia che la vede protagonista nella vita di tutti i giorni, assieme al suo desueto anziano autista austriaco, al suo agente, e alle sue amiche (Asia Argento rules). Cappellaccio da cowboy anzi cowgirl sempre in testa, comparsate in disco party e provini falliti in cui tutto viene ricondotto sempre a cotanto padre, Vera attraversa spesso in auto la Roma contemporanea da un lato come fosse una nobile decaduta, dall’altro con un preciso e deciso senso di affermazione di sé oltre l’ombra del padre. Poi all’improvviso da un angolo di strada sbuca un motorino con sopra un giovane padre borgataro con il figlio e l’autista della Gemma non riesce ad evitarli.
La protagonista si affezionerà al ragazzino, che nell’incidente si è rotto un braccio, e si avvicinerà con timore al padre vagamente coatto, ma sottilmente farabutto. Girato in 16mm, Vera è un tipico esempio del cinema del duo italo-austriaco, sorta di immersione artigianale nel vissuto dei loro soggetti filmici tra realismo e finzione che si trasforma in fabula. Vera Gemma infatti recita se stessa, come del resto molte delle persone in scena, creando una sorta di effetto sdoppiamento delle percezione di senso della storia che ammalia e colpisce. Vera ha vinto sua il premio per la miglior regia di Orizzonti e il premio come miglior attrice per la Gemma. “A chiunque ha un sogno dico di non arrendersi”, ha spiegato l’attrice. “Ero in una fase della vita in cui avevo rinunciato ad essere attrice ma non di essere artista. Mi sono stupita quando mi hanno proposto di fare un film su di me. Io ho dato tutto per questo film e mi sono messa a nudo nell’anima. Vorrei che mio padre Giuliano sapesse di questo film ma credo che in qualche modo lui lo sappia”.
Un altro grande film si divide i maggiori premi della sezione di Orizzonti con Vera. World war III dell’iraniano Houman Seyedi vince sia come Miglior Film in assoluto ed eleva il suo protagonista Mohsen Tanabandeh a Miglior Attore. Facile per le vittime imitare i propri carnefici. Ancora più facile se gli orrori della storia diventano cinema paccottiglia d’intrattenimento. È quello che accade in questo grezzo gioiello iraniano (sesto film per Seyedi) abitato in lungo e in largo da Shakib (Mohsen Tanabandeh) un uomo comune di mezza età senza più casa, moglie e figli (morti in un terremoto) che trova un ruolo da comparsa in un film piuttosto bruttino presso un cantiere dove sta saltuariamente lavorando. Sarà un prigioniero in casacca a righe da gasare in un campo di concentramento dove appare pure uno sgangherato Hitler in mezzo ad alti papaveri nazisti. Quando l’attore che interpreta il Fuhrer si accascerà al suolo per un infarto, il regista super impegnato del film vede in Shakib un improbabile Hitler per continuare comunque il film, non proprio ad altissimo budget. Shakib però ha sviluppato una relazione con Nasad, una bella signora sordomuta vessata da familiari mezzi delinquenti. Una volta che l’uomo comincerà a pernottare sul set, proprio nella villa usata come interno dei gerarchi nazisti, Nasad lo raggiungerà per vivere clandestinamente con lui, nascondendosi sotto la villa all’insaputa della troupe. Ma la tragedia sottoforma di beffa è crudelmente in agguato in una superba scena di cinema nel cinema.
World war III inizia come un film da realismo sociale, poi subito si tramuta in commedia nera e infine si scopre un thriller di livello altissimo annegato in mezzo alla fanghiglia e alle macerie del campo di concentramento fittizio. Tante le trovate visive e narrative di Seyedi, ma soprattutto risultano d’impatto inconsciamente devastante alcune concettuali sottotrame che sono davvero da brividi: la ragazza viene nascosta sotto la villa come fosse Anna Frank; le comparse del campo di concentramento si dedicano come schiavi anche a fare da maestranze per costruire e decostruire ogni giorno il set; le loro urla dentro le camere a gas del set chiuse e aperte in ritardo dalla troupe tecnica richiamano la mattanza genocida reale. Insomma, il tempo passa, ma gli oppressori continuano a schiacciare gli oppressi con tragica disumanità. A Mohsen Tanabandeh che si trasforma da sottomesso a vendicatore con una preziosa graduale mimesi caratteriale non basta il premio di Orizzonti, ma gli andrebbe dato un Oscar subito. “In quasi tutti i paesi attorno al Golfo Persico la ricchezza interna di ogni paese non viene redistribuita in modo eguale. Per questo esistono tantissime persone che sono come il mio Shakib – spiega l’attore Tanabandeh nel ritirare il premio veneziano. “è un personaggio che cerca di sopravvivere in circostanze estreme e per questo diventa una sorta di anarchico. È un personaggio che mi ricorda quelli di Bertold Brecht”.