FATTO FOOTBALL CLUB - Non si tratta di un rigore regalato o un fallo non visto, dinamiche di gioco come ne capitano a centinaia, ma di un intervento deliberato che ha cambiato il punteggio praticamente a gara finita. È il momento di creare una classe all’altezza della tecnologia, e forse chi parla di separazione delle carriere non ha tutti i torti
Risse, proteste, polemiche a non finire. “L’errore più grave di sempre del Var da quando è stato creato”. Niente di più falso: la tecnologia non sbaglia mai, sbagliano semmai quelli che la utilizzano. Cioè sempre gli stessi: gli arbitri italiani. Pur giocando male e in maniera del tutto immeritata (ma questa è un’altra storia), la Juventus aveva vinto contro la Salernitana per 3-2. Il punteggio finale recita invece 2-2 a causa del Var, e questo è imperdonabile: non si tratta di un rigore regalato o un fallo non visto, dinamiche di gioco come ne capitano a centinaia, ma di un intervento deliberato che ha cambiato il punteggio praticamente a gara finita. L’arbitro Marcenaro e la sua squadra sono riusciti a fischiare un fuorigioco che non era attivo, e che non era nemmeno fuorigioco come hanno poi dimostrato le immagini. Di fatto, il Var che è nato per evitare che un errore arbitrale potesse condizionare il risultato, ha falsato una partita. È chiaro che qualcosa non sta funzionando.
Senza entrare nel merito dell’errore, tocca ribadire una questione di ordine generale. Il Var è uno strumento imprescindibile per il calcio moderno: impossibile pensare di tornare indietro, la crociata contro la tecnologia, una sorta di luddismo declinato al pallone, è folle, antistorica o proprio in malafede. Ciò detto, è anche arrivato il tempo di cominciare a sfruttarla in modo giusto e, almeno noi in Italia, non sembriamo in grado di farlo. Quando succede una topica del genere, clamorosa, inaccettabile, la colpa non può mai essere dello strumento ma di chi lo utilizza. Non controllare a dovere tutte le immagini a disposizione, in particolare quella più larga in una situazione da calcio d’angolo dove è frequente che ci siano uomini sui lati periferici del campo, è un errore di superficialità sconcertante. Ma anche soltanto pensare di richiamare al monitor il direttore di gara per valutare una casistica marginale come un fuorigioco passivo con palla nemmeno sfiorata e portiere non impallato, mettendolo sotto pressione al 95° minuto, è una scelta cervellotica e difficile da comprendere.
Viene da pensare davvero che chi utilizza il Var non sia alla sua altezza. E il sospetto diventa sempre più fondato quando scopriamo che a Lecce, in un altro stadio dove si è consumata un’altra nefandezza arbitrale passata in sordina solo per la minore importanza del match (rigore solare non dato per un fallo di mani evidente, controllato dal Var e non segnalato al direttore di gara), in saletta si trovava Antonio Di Martino, ex fischietto dismesso lo scorso anno per motivazioni tecniche. Cioè non ritenuto all’altezza di stare in campo, ma abbastanza per rimanere davanti al monitor. Senza infierire sul diretto interessato, incappato in una decisione sfortunata come l’arbitro Pairetto non nuovo a simili défaillance, è evidente che abbiamo un problema di classe arbitrale, o meglio di “varisti”.
L’Aia non ha investito a sufficienza su una figura sempre più centrale e decisiva nel calcio moderno, persino più dell’arbitro, perché se sbaglia questo la tecnologia può sempre intervenire, se si sbaglia a monte invece non c’è rimedio. E forse è anche questo il problema: si continua a concepire il Var solo come un supporto, perché per motivi politici e corporativi non si vuole marginalizzare la figura dell’arbitro. E perciò non lo si potenzia e perfeziona. Ma non si può continuare così, perché tutti i buoni propositi finiscono per essere spazzati via: in queste prime giornate la conduzione arbitrale generale sembrava anche migliorata (meno interruzioni e addio all’automatismo contatto-rigore che dall’avvento del Var aveva portato al proliferare di penalty risibili), ma tutto passa in secondo piano di fronte di fronte a queste sviste macroscopiche. A quanto pare, gli arbitri italiani non sanno (o non vogliono?) gestire il Var nella maniera più giusta. Non ci riescono i migliori, figuriamoci quelli meno bravi che spesso vengono dirottati al monitor. È il momento di creare una classe all’altezza della tecnologia, e forse chi parla di separazione delle carriere non ha tutti i torti. Ne va della credibilità dello stesso Var. Cioè del campionato.
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