L’accusa è di aver costruito negli anni un “sistema corruttivo, ampio, diffuso, radicato e capillare", in cui "l'ufficio tecnico del Comune è divenuto il centro di gestione del potere”. Era principalmente intorno agli affari estivi che si muovevano gli interessi, per la procura basati sul "do ut des" con gli imprenditori. Coinvolti anche il capo della Polizia Municipale e un imprenditore, da sempre considerato vicino a Massimo D'Alema
“Quante… ce ne siamo scampate… e qua hanno tentato di denunciarci per le ‘coglionate’ invece no? Se erano andati a trovare veramente le cose giuste vedi… saremmo già finiti in gattabuia”. Parola di Luciano Cariddi, ex sindaco di Otranto per una vita nell’Udc e poi passato alla Lega, adesso davvero finito in carcere insieme al fratello Pierpaolo, suo successore alla guida del comune salentino. L’accusa è di aver costruito negli anni un “sistema corruttivo, ampio, diffuso, radicato e capillare”, in cui “l’ufficio tecnico del Comune è divenuto il centro di gestione del potere”. L’inchiesta ha portato all’arresto di altre 8 persone: ai domiciliari sono finiti tecnici comunali e imprenditori tra cui il presidente di Federalberghi di Lecce, Raffaele De Santis, e Roberto De Santis, quest’ultimo coinvolto anche un’indagine riguardante una maxi-forniture di materiale Covid alla Regione Lazio e da sempre ritenuto vicino a Massimo D’Alema (completamente estraneo ai fatti).
Le indagini congiunte dei carabinieri e dei finanzieri di Lecce, coordinate dai pubblici ministeri Roberta Licci e Valeria Mignone, hanno coinvolto – a piede libero – anche Totò Ruggieri, ex senatore dell’Udc ed ex assessore regionale al Welfare già ai domiciliari dal 7 luglio scorso. Per il gip Cinzia Vergine quell’affermazione fatta da Luciano Cariddi il 31 dicembre 2017 è il “segno
inequivocabile della spregiudicatezza e disinvoltura” degli indagati. Ignaro di essere ascoltato dagli investigatori, Cariddi si rivolge così a un suo interlocutore e, per gli inquirenti, “ammetteva l’esistenza del consolidato sistema affaristico clientelare da lui ideato ed organizzato” sul territorio insieme “al fratello” e che “ha consentito al ‘gruppo’ di continuare a gestire la vasta gamma
delle attività illecite”.
Le accuse, a vario titolo, nei confronti delle 57 persone iscritte nel registro degli indagati vanno dall’associazione a delinquere alla corruzione elettorale, dalla frode in processo penale e depistaggio alla concussione fino alla turbativa d’asta e truffa ai danni dello Stato e della Comunità Europea. Nelle 958 pagine che compongono l’ordinanza di custodia cautelare, gli inquirenti parlano di un vero e proprio “sistema Cariddi” fondato sul principio del “do ut des”: il politico, per consolidare il proprio bacino elettorale, intrattiene rapporti privilegiati con l’imprenditore che procaccia voti e che, a sua volta, si relaziona con il politico al fine di assicurarsi corsie preferenziali nei rapporti imprenditoriali con la pubblica amministrazione. Un sistema che i fratelli sono riusciti a rafforzare passandosi lo scettro del potere.
Fin dal 1998, infatti, Luciano Cariddi, attraversa le amministrazioni che si succedono alla guida di Otranto: nel 2007 diventa sindaco e viene rieletto fino al 2017, data in cui, in “continuità familiare e in una sorta di candidatura ereditaria, subentra – scrivono i magistrati – il fratello Cariddi Pierpaolo”. Quella sorta di abdicazione, per l’accusa, ha permesso a Luciano “di conservare sostanzialmente intatte le prerogative di primo cittadino”. Dalle indagini, infatti, Luciano Cariddi viene dipinto come “l’alter ego del fratello” Pierpaolo: per gli investigatori è proprio Luciano che indirizza l’operato istituzionale del fratello “condizionandone ogni scelta soprattutto sul piano amministrativo e in relazione ai rapporti con gli imprenditori locali che in quel comune hanno rilevanti interessi”.
Le intercettazioni, inoltre, hanno spiegato che neppure Pierpaolo faceva mistero di quella familiare regia occulta: “O io o lui no! – spiega a un uomo che lo invita a un convegno a Roma sulla realizzazione del porto di Otranto – Eeee (…) uguali, uguali siamo… uguali siamo. La pensiamo allo stesso modo e quindi, voglio direeee ci dividiamo i compiti e gli impegni”. Al governo della città da oltre 12 anni, i Cariddi avrebbero messo su, per la procura di Lecce, “una struttura organizzata, egemonica sul territorio” di cui facevano parte anche Roberto Aloisio, ingegnere istruttore tecnico dell’ufficio demanio del Comune, Giuseppe Tondo, geometra ed ex responsabile comunale dell’area ambiente, patrimonio, protezione civile e pubblici spettacoli, ed Emanuele Maggiulli, responsabile dell’Ufficio tecnico.
Il gruppo poteva contare anche sull’assessore e vice sindaco Michele Tenore e su Vito Alberto Spedicato, comandante della Polizia Municipale di Otranto che “si poneva – scrivono i pubblici ministeri – a disposizione delle esigenze dei Cariddi e degli imprenditori ad essi legati da rapporti privilegiati”. In particolare secondo l’accusa, Spedicato informava gli imprenditori amici delle imminenti attività di controllo soprattutto per stabilimenti balneari e strutture turistico ricettive. Nel Salento, infatti, era principalmente intorno agli affari estivi che si muovevano gli interessi.
Non a caso, nell’inchiesta ci sono anche le operazioni compiute dagli indagati per portare a Otranto il Twiga di Flavio Briatore (non indagato ed estraneo alle accuse). Proprio il Comune dei fratelli Cariddi avrebbe autorizzato illegittimamente la nascita del Twiga: una vicenda nella quale, secondo quanto si legge nelle carte, “i tre De Santis – Raffaele, Luigi e Roberto – sono coloro che muovono le fila”. Alcuni degli indagati, tra i quali anche Roberto De Santis, avrebbero tentato di convincere la comandante della Capitaneria di Porto, Elena Manni, a revocare l’ordinanza che vietava transito, balneazione e ogni altra attività umana nella zona dove doveva sorgere lo stabilimento di lusso. Tentativi inutili perché la donna non ha mai ceduto. E il Twiga non ha mai visto la luce.