Forte l’impronta formale del realizzatore sia dietro la macchina da presa, con numerose infrazioni alle regole classiche del cinema come la mancanza di cavalletto, le carrellate senza utilizzare binari d’appoggio, sia nel montaggio
Addio Jean-Luc Godard. Figura chiave della Nouvelle Vague, il movimento teorico e infine produttivo che rivoluzionò il cinema alla fine degli anni cinquanta, il regista franco svizzero è morto a 91 anni. Stilisticamente iconoclasta, bizzarro e radicale, Godard ha coraggiosamente e provocatoriamente destrutturato l’abituale e tradizionale visione del cinema classico, approfittando della polemica critica dei Cahiers du Cinema a cui apparteneva, scrivendo e dirigendo Fino all’ultimo respiro (1960) che, con I quattrocento colpi (Truffaut) e Hiroshima mon amour (Resnais) aprì la strada a quel cinema che mise al centro la figura dell’autore. Forte l’impronta formale del realizzatore sia dietro la macchina da presa, con numerose infrazioni alle regole classiche del cinema come la mancanza di cavalletto per la macchina da presa, le carrellate senza utilizzare binari d’appoggio, sia nel montaggio: ad esempio la distanza e il grado di angolazione della ripresa sullo stesso personaggio utilizzando per poche decine di secondi di narrazione decine di inquadrature apparentemente identiche (si veda la celebre scena di Jean Seberg seduta in auto con Belmondo in Fino all’ultimo respiro). Importanti nel primo periodo pre ’68 almeno altri tre titoli: Questa è la mia vita (1962), Le petit soldat – che fu vietato per due anni e sensibilizzò il governo francese sul reato di tortura -, e Il disprezzo (1963), girato in piani sequenza, tratto da Moravia e con Brigitte Bardot, che verrà censurato e rimontato, snaturandolo, dal produttore Carlo Ponti. Poi ancora Band a part (1964) triangolo sui generis con la celebre scena della corsa a perdifiato dei protagonisti tra i corridoi del Louvre. Sequenza, e cinema tutto, che hanno influenzato nientemeno che Quentin Tarantino: il regista statunitense fondò infatti la sua compagnia di produzione chiamandola A band apart. Il cinema di Godard ebbe un tale effetto dirompente e di rottura rispetto alla tradizione che in mezzo ai fermenti di rivolta degli anni sessanta venne completamente identificato con la politica rivoluzionaria dell’epoca.
La sua produzione cinematografica infatti compì una svolta: fondò il collettivo di cineasti intitolato a Dziga Vertov; ma soprattutto durante il Festival di Cannes assieme a Truffaut, Claude Berri e Roman Polanski si fece artefice della protesta sociale e contribuì alla sospensione della manifestazione in solidarietà con studenti e operai in lotta in quelle settimane. Sono gli anni in cui Godard dirige La cinese o Crepa padrone, tutto va bene: altra straordinaria destrutturazione di linguaggio (il film inizia con un bignami su come si produce un film in tutte le sue fasi) con protagonisti nientemeno che Yves Montand e Jane Fonda in quella che possiamo definire una storia d’amore classica di una coppia separata dalla lotta di classe. Con il passare degli anni settanta però la forza dell’impianto rivoluzionario di Godard va a spegnersi: attorno decine e centinaia di epigoni, al di sopra la società che muta e si ridisegna creativamente ed artisticamente oltre le barricate del radicalismo formale e politico. Così gli anni ottanta rappresentano uno strano e bizzarro simulacro dei suoi capolavori. Passion, Prenom Carmen, Je vous salue Marie e Detective diventano pretesto per polemiche e scandali sopra le righe, lontani oramai dall’impianto originale di sovversione politico formale anni sessanta. In particolar modo Je vous salue Marie, provoca reazioni isteriche nel mondo cattolico francese ed italiano. Tra l’altro, durante la lavorazione finale di quest’opera Godard incrocia per l’ennesima volta campo professionale e privato, elaborando la fine della relazione con Myriem Roussel, protagonista del film, e rinchiudendosi con lei in una stanza per diversi giorni, lui, la macchina da presa e l’oramai ex compagna in una ripresa febbrile dei gesti più minimi ed intimi di lei che finiranno nel film. Del resto cinema e vita in Godard si attorcigliano con inesorabile tempismo fin dai suoi primi film: ebbe una relazione con una delle sue prime muse, Anna Karina, nei primi anni sessanta e da cui divorziò nel 1965; poi con l’attrice Anne Wiazemsky; e ancora con la regista Anne-Marie Mieville.
Nel 1987 Godard gira un suo personalissimo King Lear, riconfigurato come una farsa post-apocalittica modello gangster movie a cui partecipano Woody Allen, Leo Carax, Peter Sellers, July Delpy e il drammaturgo Norman Mailer. Saranno i produttori americani, specialisti di film d’azione, della Cannon Films a finanziare un milione di dollari per un film travagliatissimo, improbabile e sostanzialmente irrealizzabile, di cui si ricordano soltanto gli esborsi continui della Cannon che arriva a spendere 3 milioni di dollari, quasi tutti in aerei che Godard prende continuamente tra Stati Uniti e Svizzera, dove in fondo tenterà di girare tutte le scene (a loro volta riscritte e rimasticate decine di volte). La sintesi essenziale di un ulteriore restringente tentativo di rimanere controcorrente e antisistema rispetto al cinema tradizionale di narrazione, produce infine opere come Nouvelle Vague (1990) o Eloge de l’amour (2001), dove come nel primo titolo il testo recitato in scena (ci sono Alain Delon e Domiziana Giordano) o declamato dalla voce off è composto solo da citazioni di grandi letterati e pensatori (da Marx a Hemingway) o nel secondo dove il testo richiama aneddoti, detti celebri e gag paradossali. Infine con Film Socialisme (2011) Godard compie probabilmente il suo smacco più grande rispetto al mezzo cinema che sembra esser sfuggito incoerente ed esasperante (l’opera è suddivisa in tre movimenti, uno staccato dall’altro, e al proprio interno con un ulteriori sconnessioni) ad un controllo che sa di beffa umoristica.
Godard era nato a Parigi nel 1930, ma aveva frequentato la scuola a Nyon, sulle rive del Lago di Ginevra in Svizzera. Padre medico e madre discendente da un ricca famiglia di banchieri, Godard era tornato a Parigi nel 1949 per frequentare la Sorbona. Si inserisce subito nel fermento intellettuale dei cine-club parigini del dopoguerra, crogiolo prima dei Cahiers diretti da André Bazin, poi delle piccole produzione della Nouvelle Vague. Paradossale, infatti che il futuro rivoluzionario, sui Cahiers attacchi il cinema di papà e santifichi comunque la classica produzione hollywoodiana elevando ad “autori” Howard Hawks e Otto Preminger. Prima di Fino all’ultimo respiro Godard girerà cortometraggi reputati dalla sua cerchia di conoscenze sciatti e tirati via, ma poi grazie all’aiuto del collega Truffaut – fresco del successo de I 400 colpi – utilizzerà questa apparente trascuratezza come marchio stilistico per realizzare proprio un soggetto di Truffaut, ovvero Fino all’ultimo respiro. Con l’amico Francois la relazione diventerà presto complessa. Dopo battibecchi continui e lettere al vetriolo da parte di Godard che accusa Truffaut di eccesso di commercializzazione per i suoi film e Truffaut che lo definirà “un uomo di merda su un piedistallo di merda”, si arriverà alla violenta separazione (ben documentata nella biografia di Truffaut edita in Italia da Lindau). Scostante, distaccato, irsuto e isolato da qualsivoglia idea di mainstream, Godard si era ritirato in solitaria a Rolle, sulla sponda nord del lago di Lemano, fin dal 1977. In mezzo al fumo di sigari Partagas aveva trasferito lì la sua casa laboratorio artigianale di creazione e produzione (“vado in periferia per ritrovare il mio centro”) e li convogliato gli adepti e i fedelissimi sempre meno numerosi. Secondo quanto riporta il quotidiano Liberation il regista ha scelto il suicidio assistito in Svizzera, anche se non era malato.