Ribaltata la sentenza di primo grado: l'esponente di Italia Viva e i dem del capoluogo salentino devono versare 50mila euro a colui che secondo i giudici era a tutti gli effetti un lavoratore dell'ex sottosegretaria e del partito salentino.
Cinquantamila euro. È la cifra che la vice ministra Teresa Bellanova e il Partito democratico di Lecce devono risarcire a Maurizio Pascali per il lavoro svolto in tre anni. Poco più di 43mila euro il partito, il resto l’ex sindacalista. È l’esito di una causa durata, sino ad ora, 8 anni. Maurizio Pascali non era, dunque, uno studente universitario che sostava nelle stanze del partito per studiare e non era nemmeno solo un collaboratore autonomo, come sostenuto dai democratici. Era, invece, l’addetto stampa che, con una partita iva, ha lavorato in modo continuativo dal 2010 al 2013 per il Pd e per l’allora sottosegretaria al Lavoro. Una fattura da emettere mensilmente, 1200 euro lorde, che diventavano 600 euro nette, per un lavoro giornaliero, comprensivo del sabato e di extra se necessari. Comunicati, inviti a conferenze stampa, dichiarazioni, repliche, rapportarsi con i media: questi i compiti. Per la Bellanova, invece, non solo era un collaboratore autonomo ma Pascali aveva anche “estorto in modo fraudolento” la lettera di referenze scritta su carta intestata della Camera dei Deputati con il calce la sua firma che, però, disconobbe nel corso di una intervista rilasciata a La7 pur avendola inserita nella memoria presentata al giudice del lavoro.
Ne è seguita una lunga causa civile e penale con l’accusa per l’ex collaboratore di diffamazione, truffa, tentativo di estorsione e calunnia. La Corte d’appello di Lecce, ribaltando la sentenza di primo grado, ha stabilito che, nonostante la partita iva, il collaboratore era a tutti gli effetti un dipendente del Pd e per l’ultimo periodo anche della Bellanova. Si sposa, dunque, il principio stabilito dal decreto legge 276/2003: le partite iva non possono sostituire i contratti di lavoro che siano in codatorialità come da d.lgs o che siano in monocommittenza, come sancisce la legge Fornero del 2012. A corredo della tesi i giudici riportano un esempio: durante la campagna elettorale per le politiche del 2013, la Bellanova si avvalse di una pubblicazione a colori che illustrava l’insieme delle attività da lei svolte negli anni del precedente mandato. “Il suo impegno a difesa e tutela dei lavoratori di fasce deboli – citano i giudici – la trasparenza del proprio operato quanto alla gestione delle spese, alla regolarità dei rapporti di lavoro”. Nella penultima pagina di questo documento era riportato il nome di Maurizio Pascali tra i redattori. Una prova, dunque, dell’esistenza del rapporto di lavoro e della mansione svolta. A questo si aggiungono le fatture che “lasciano fondatamente presumere che l’impegno ulteriore con la Bellanova, rispetto al Pd, sia iniziato nel gennaio 2013”. Di qui la condanna e il risarcimento.
La sentenza è datata giugno 2022 ma è emersa solo ora perché l’avvocato difensore di Pascali, Alessandro Stomeo, l’ha messa agli atti del processo penale. Perché a finire a processo sono stati anche i giornalisti che, all’epoca, raccontarono la vicenda. L’accusa iniziale per Mary Tota de Ilfattoquotidiano.it, Danilo Lupo della trasmissione La Gabbia allora in onda su La7 e Francesca Pizzolante de Il Tempo era di diffamazione e concorso in tentata estorsione, poi ridotta a diffamazione. I giornalisti, difesi dall’avvocato Roberto Eustachio Sisto, da 8 anni sono accusati di aver diffamato la sottosegretaria al Lavoro, con un importante trascorso nel sindacato, perché hanno raccontato della sua vertenza di lavoro contro Pascali, per i giudici il collaboratore fisso ma con partita iva. Come quelli che tentava di tutelare la legge Fornero, di cui fu lei stessa fu relatrice.