Una persona su quattro in Italia è a rischio povertà. E’ quanto emerge dalle ultime stime Eurostat, l’istituto europeo di statistiche riferite al 2021. Il dato relativo all’ Italia, ancora provvisorio, è per la precisione del 25,2% della popolazione in lieve incremento (+ 0,3%) rispetto alla precedente rilevazione e al di sopra del 21,7% medio dell’Unione europea. Il grado di disagio economico italiano è più alto rispetto a quello di tutte le economie comparabili. La Francia si ferma al 19%, la Germania al 21%. Più alte le percentuali di popolazione a rischio in Spagna e Grecia, intorno al 27%. Il paese con il dato peggiore è la Romania (34,4%) seguita dalla Bulgaria. Le cifre migliori riguardano invece Finlandia, Slovenia e Repubblica Ceca (10,7%).

In cifre assolute le persone a rischio povertà o esclusione sociale nell’Ue sono 95,4 milioni. Si tratta di famiglie che presentano almeno uno dei tre fattori si rischio ossia quello di povertà, grave deprivazione sociale e/o residenza in una famiglia con intensità di lavoro molto bassa. Tra il 2020 e il 2021 le persone incluse in queste categorie sono aumentate di 600mila unità. Tra i 95,4 milioni di persone, circa 5,9 milioni (1,3% della popolazione) vivevano in famiglie che presentavano tutti e tre i rischi di povertà ed esclusione sociale. Nel 2021, 73,7 milioni di persone erano a rischio di povertà, mentre 27 milioni erano gravemente svantaggiate dal punto di vista materiale e sociale e 29,3 milioni vivevano in una famiglia a bassa intensità di lavoro.

I dati ribadiscono la gravità della condizione sociale in Europa ed Italia in particolare. Mentre nel paese si discute la possibilità di eliminare, o ridurre significativamente, il Reddito di cittadinanza, la Commissione Ue si appresta ad emanare una raccomandazione in cui sollecita tutti i paesi membri ad adottare un reddito minimo universale. Ieri inoltre si è tenuta la votazione finale del Parlamento europeo sul salario minimo. Provvedimento che lascia comunque liberi i paesi membri di perseguire l’obiettivo o fissando una retribuzione minima per legge o attraverso la contrattazione collettiva.

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