Diritti

Perché il femminile nel vocabolario Treccani non è affatto un dettaglio

Evviva! Il femminile finalmente esiste, ed ora è certificato anche dal vocabolario più importante in Italia! Lo attesta dalla settimana scorsa, dopo quattro anni dall’ultima edizione, la versione aggiornata del dizionario italiano Treccani, la fonte più autorevole sul significato delle parole in Italia (il suo slogan è “Le parole valgono” e la sua definizione online è “Il portale del sapere”) che verrà pubblicata a ottobre 2022. Segnatevi la data: Valeria Della Valle, (prima linguista a dirigere l’opera dal 2008) e Giuseppe Patota, che curano la storica edizione, hanno anticipato una novità epocale: sarà infatti il primo ente enciclopedico in Italia a registrare le forme femminili di nomi e aggettivi insieme a quelle maschili.

Nei dizionari italiani pubblicati fino a oggi la maggior parte delle parole e degli aggettivi femminili, ad esempio alta, bassa, bella, buona, gatta, fioraia, amica non compaiono come voci oppure compaiono sì, ma in riferimento al termine maschile (per esempio: “alta, femminile singolare di alto”). Il femminile risulta, quindi, in dipendenza al maschile. Treccani ha finalmente dato a femminili e maschili la stessa importanza, indicandoli entrambi in un’unica voce (o in due voci separate, in alcuni casi specifici) e disponendoli in ordine alfabetico: “amica, amico” oppure “direttore, direttrice”.

Un dettaglio? Per nulla: come ha spiegato Patota, prevenendo le tante obiezioni che spesso si avanzavano nei decenni scorsi, quando si evidenziava che il femminile era cancellato e inglobato nel maschile con il ‘neutro’, soluzione normalmente usata per non dire il femminile, “questa organizzazione delle voci non crea assolutamente difficoltà per chi consulta il vocabolario, ma restituisce alle parole verità e realtà negate, cancellate per secoli. Questo approccio, che tiene conto di alcune consapevolezze recenti emerse dal dibattito sul sessismo del linguaggio, dà spazio e dignità anche ai femminili di molte professioni che pur esistendo nella lingua italiana fanno fatica ad affermarsi nel linguaggio comune, perché rimandano a lavori che storicamente erano considerati solo maschili: alcuni ormai sono molto diffusi come avvocata, sindaca, ministra altri meno come per esempio medica o soldata”. Della Valle, per dare ulteriore importanza alla decisione presa dall’istituto (e supportata negli ultimi anni anche da diverse pronunce dell’accademia della Crusca) ha specificato che questa scelta “si spiega con la volontà di registrare parole grammaticalmente corrette, anche se suscitano in molti un senso di fastidio: se suonano male o sembrano brutte è solo perché sono usate poco”.

Quindi accanto a casalinga troveremo anche casalingo (c’è stato anche un movimento di uomini con questo nome!) ma finalmente la nuova edizione segna la sostituzione della parola ‘uomini’ usata per indicare gli esseri umani in generale, inglobando e cancellando le donne, con esseri umani o persona. Una grande rivoluzione nonviolenta i cui effetti vedremo lentamente, ma la strada è tracciata in maniera definitiva, dal momento che anche una grande istituzione custode delle parole lo certifica. Nel 2013 l’Università di Lipsia aveva lanciato quella che in Italia era sembrava una provocazione inaudita: si era stabilito che il ‘neutro’ era femminile: quindi professora, ricercatrice, rettora era usato anche per i docenti maschi. Primo caso al mondo di neutro femminile. Biglietti da visita, siti web e carta intestata erano stati aggiornati alla luce di questa rivoluzione linguistica: la professora (o professoressa), la ricercatrice, la rettora o rettrice erano parole usate per individuare chiunque, docenti maschi compresi.

Fu estremamente interessante, e importante, che la decisione tedesca, che non mancò di far discutere in Italia e nel mondo, nascesse proprio nel cuore del sapere formativo, in una istituzione antica che osò dove altre realtà non hanno mai messo in discussione il sistema di educazione e comunicazione patriarcale. “Guten Tag, Herr Professorin”, “Buongiorno, signor professoressa”, ironizzò all’epoca il quotidiano Der Spiegel, iniziando il dileggio e riportando il commento del giurista Bernd-Ruediger Kern: “Questo è femminismo, una lingua che non fa bene al rigore del sapere e non porta contenuti buoni”. In Italia, è bene ricordarlo, fino agli anni 80 dalla grammatica scolastica delle elementari si imparava che la regola di usare il genere maschile, anche in presenza di un solo uomo o elemento maschile, era giustificata dal fatto che “il maschile è il genere più nobile”.

Viene da chiedersi: chissà perché nel terzo millennio è così difficile adeguare il linguaggio, e definire quindi le persone, a seconda se uomini o donne, con aggettivi e parole in relazione al sesso di appartenenza. Il perché è semplice, e allo stesso modo complesso: si tratta di una questione di potere. Potere di essere nominate, di essere memorabili, di differenziarsi, di avere autorevolezza a pari merito con gli uomini. “Non si usa la sessuazione del linguaggio perché il nome è potere, esistenza, possibilità di diventare degne di entrare nella storia in quanto donne, trasmettitrici della vita ad altri a prezzo dell’oscurità della propria. Questo infatti è il potere simbolico del nome, dell’esercizio della parola: trasmettere la storia sessuando il linguaggio è narrarsi, dirsi, obbligare ad essere dette con il proprio nome di genere. Se non abbiamo nome e siamo possesso di un uomo, dell’etnia, della nazione, della religione, possiamo essere violentate nei molti modi in cui ciò avviene: se abbiamo nome e potestà di noi stesse la cosa è più difficile”. Così Lidia Menapace nel 1990. Come per la questione del cognome materno, da aggiungere a quello paterno per i figli e le figlie, si tratta di potere, peso e rilevanza sociale.

La studiosa Mary Bateson nel suo bellissimo Comporre una vita scrive che “il carattere distintivo della vita contemporanea è il cambiamento”. E nessun cambiamento, né culturale, politico, sociale o esistenziale è immune dall’attraversare dei conflitti. L’esigenza di sessuare il linguaggio, incrinando con la pratica linguistica la cultura del neutro non è un vezzo di poche intransigenti femministe anche se insistere sulla formazione sessuata e puntualizzare sul linguaggio appare un’impresa anacronistica, a tratti ridicola. Ma mi conforta il pensiero di una grande autrice, Ursula K. Le Guin, che amando i paradossi e scrivendo di fantasy e fantascienza afferma: “Nel mondo solo gli uomini e le donne che accettano di essere coperti di ridicolo possono davvero cambiarlo”. Come dire, una risata seppellirà il neutro.