Non c’è solo l’imprevedibilità dell’evento atmosferico alla base di quanto accaduto nelle Marche tra giovedì 15 e venerdì 16 settembre. Ma anche la mancata prevenzione. Vasche di laminazione, cioè bacini per accogliere le ondate di piena di fiumi o canali, pensate già negli anni ’80 e mai realizzate, ponti con pile che ostacolano il passaggio dell’acqua e mancate pulizie dei corsi d’acqua sono alcuni degli elementi che hanno contribuito all’alluvione che ha causato, al momento, la morte di 9 persone e dispersi, oltre alla distruzione di interi centri, come quello di Cantiano, e alla devastazione di case e attività produttive al piano terra.
Il Misa che esonda, fiumi di fango per le strade e, il mattino dopo, cittadini “al lavoro” con pale e stivali, non sono infatti immagini nuove per le zone tra la provincia di Ancona e quella di Pesaro Urbino. Il ricordo dell’alluvione del 2014 è ancora vivo. Eppure da allora, denuncia Piero Farabollini, presidente dell’Ordine dei geologi delle Marche e professore di Geomorfologia dell’Università degli studi di Camerino, gli interventi individuati per “mitigare il rischio idrogeologico” sono rimasti “lettera morta“. E così, ancora una volta, le Marche si sono trovate a dover ragionare a emergenza già avvenuta anziché prevenire.
Pulizia degli alvei, realizzazione delle vasche e interventi sui ponti dipendono tutti dalla Regione Marche, ci spiega ancora il geologo, commissario alla Ricostruzione dopo il sisma del centro Italia del 2016 per due anni. “Ma la nuova Giunta si è trovata di fronte a una situazione incancrenita negli anni con situazioni anche prossime al collasso”, specifica.
IlFattoquotidiano.it ha provato a raggiungere telefonicamente l’assessore alla Protezione civile della Regione Marche, Stefano Aguzzi, ma senza ricevere risposta.
La pulizia del fiume – Il primo lavoro “facile”, che è possibile considerare manutenzione ordinaria, è quello della pulizia dell’alveo del fiume, in questo caso del Misa, il corso che ha provocato maggiori danni. Un’attività che, dice il sindaco di Senigallia, Massimo Olivetti, eletto nel 2020 a capo di una coalizione di centrodestra dopo anni di amministrazione del centrosinistra, “abbiamo chiesto alla Regione di fare”, insieme ad altri interventi e che, in effetti, assicura, “è stata fatta per una parte del fiume circa 7-8 mesi fa”. “Mancava l’ultimo pezzo di fiume”, quello per intenderci che attraversa la città, che “era in programma”, spiega ancora Olivetti parlando al Fatto.it.
La pulizia però, secondo Olivetti, anche se portata a termine, non avrebbe scongiurato il disastro. Ma certamente, come ci fa capire anche Farabollini, avrebbe mitigato. “La vegetazione che nasce nell’alveo rappresenta una pericolosità”, dice ancora al Fatto.it, sottolineando anche l’influenza della siccità in questa situazione. “Nei nostri fiumi con le secche non troviamo altro che alvei trasformati in distese di alberi – spiega – perché proprio là dove si abbassa il livello dell’acqua, rimane il sedimento fluviale e attecchisce la vegetazione, per cui si formano isole verdi”. Isole che poi, con la piena, ostacolano il normale deflusso dell’acqua.
Le pile dei ponti – Anche i piloni dei ponti che attraversano diversi punti del Misa possono aver influito nel normale decorso d’acqua, conferma al Fatto.it il presidente dell’Ordine dei geologi. “Dopo l’alluvione del 2014 ho ritenuto fosse una priorità togliere le pile dal ponte del 2 giugno – ci spiega al telefono Maurizio Mangialardi, ex sindaco dem di Senigallia che otto anni fa durante l’ultima alluvione guidava la città – C’erano le risorse anche per il ponte Garibaldi, la Giunta regionale avrebbe dovuto farlo come prima cosa”, ma non è stato così. Oggi infatti, ci dice ancora l’attuale primo cittadino, ci sono ancora tre ponti ai quali “andrebbero tolti i piloni” che fungono come una specie di tappo: il ponte Garibaldi, quello che passa sopra alla strada statale e quello “della ferrovia”. “Eravamo preoccupati perché proprio sul Garibaldi si era fermato molto materiale, temevamo che i ponti venissero portati via dalla piena, ma non è accaduto”, racconta sollevato Olivetti che, però, ribadisce che è la Regione ad avere competenze economiche e di intervento sull’alveo del fiume.
Uno “scaricabarile politico”, come lo definisce il capogruppo all’opposizione in Consiglio comunale, l’esponente dem Dario Romano, riferendosi anche alle altre affermazioni di Olivetti che, più volte, nel corso della giornata ha ribadito che “non c’è stata alcuna allerta meteo“. “Il fatto che non ci siano piloni aiuta inevitabilmente il decorso dell’acqua e aumenta i tempi di corrivazione, il legname e altri materiali scorrono. Negli altri ponti c’è da fare questo lavoro e bisognava ottenere gli stessi fondi ottenuti per il ponte del 2 giugno – attacca Romano raggiunto telefonicamente – I tempi biblici dipendono anche da una mancanza di polso del sindaco oltre che dalla burocrazia”.
La vasca a monte della foce del Misa – Proprio la burocrazia contribuisce a bloccare l’opera principale che, concordano esperti ed amministratori, avrebbe attenuato l’esondazione: la vasca di laminazione di Bettolelle (il cui progetto oggi prevede la divisione in due differenti vasche). Il grosso invaso da realizzare a monte dell’abitato di Senigallia, servirebbe in caso di piena per “stoccare” l’acqua, alleggerendo così il fiume. L’acqua verrebbe poi riemessa nel fiume a piena passata. L’opera imponente, però deve ancora vedere la luce dal 1982, ci racconta ancora Mangialardi.
I lavori, dopo 40 anni di progetti, sono effettivamente iniziati lo scorso febbraio, ma mai terminati. La responsabilità? Difficile individuare un solo “capro espiatorio”. L’autorità di bacino distrettuale dell’Appennino Centrale, “che garantisce che si rispettino gli adempimento comunitari” ha il compito di redigere “piani distrettuali”, ma poi “l’attuazione di quello che viene deciso è di competenza regionale”, spiega al Fatto.it il geologo Mario Smargiasso dirigente del settore sub-distrettuale per la Regione Marche dell’Ente pubblico.
Ma nel caso della vasca di Bettolelle l’iter si è incagliato più volte. “L’opera venne finanziata con i fondi Fio – dice Smargiasso – Fu stanziata una somma molto consistente, fu progettata e nei primi anni ’90 il progetto venne bloccato perché non in linea con la sensibilità ambientale”. Poi, in seguito, il progetto venne ripreso in mano, “ma nel frattempo i fondi stanziati avevano un minor valore concreto perché i costi erano aumentati”. A questo si aggiunsero “vicissitudini di tipo urbanistico” e, ancora, “la legge Delrio”. “I finanziamenti furono concessi alla provincia di Ancona – chiarisce Smargiasso – Ma nel frattempo le funzioni in materia di demanio idrico sono passate alla Regione che però, nella pratica, non disponeva dei fondi concessi alla provincia”.
A incidere sui tempi lunghi, oltre alle vicissitudini “pratiche” sono anche problemi burocratici, evidenzia Farabollini. “In Italia abbiamo vincoli legati alla paesaggistica, poi ci sono gli espropri, le valutazioni dell’impatto ambientale e, ancora, l’individuazione delle ditte – specifica – C’è un iter burocratico e tecnico amministrativo lungo che richiede importanti sforzi da chi progetta, dagli amministratori e dalla collettività”. E questo “comporta tempi lunghissimi”.
E non solo. Come ci spiega Andrea Storoni, ex sindaco di Ostra, uno dei comuni più colpiti dall’alluvione, non è sempre facile avviare percorsi di consultazione che coinvolgano “comuni, associazioni e ‘stakeholder'”. Senza dimenticare, dice da ex amministratore locale, che “le Regioni sono macigni, il percorso è lentissimo perché farraginoso, sono enti lenti e tutto si rallenta”.
La necessità di una vasca di laminazione, ci racconta l’ex commissario alla Ricostruzione, era emersa in maniera importante anche dopo l’alluvione del 2014, insieme alla necessità di “mitigare il rischio idrogeologico” con una “riprofilatura degli argini” oltre a “interventi di manutenzione”. “Sicuramente una vasca di laminazione avrebbe attenuato quanto accaduto – spiega – Se già fossero state in funzione le vasche progettate, il Misa non avrebbe esondato. Avrebbe leggermente tracimato ma non la modalità come è accaduto“. Dal 2016, anno in cui furono individuati gli interventi insieme all’Autorità di bacino, fino a oggi, denuncia ancora l’ex Commissario, “poco è stato fatto in funzione della prevenzione”.
La prevenzione – Eppure, sottolinea Farabollini, proprio la prevenzione dovrebbe essere la prima “arma” contro i cambiamenti climatici. “Dobbiamo abituarci a queste situazioni di alta piovosità perché è cambiato il regime delle precipitazioni – dice ancora – Non sono più distribuite. Gli 800 mm di pioggia che solitamente cadono nelle zone collinari e costiere delle Marche distribuite in un anno non ci sono più. Oggi sono caduti 400 mm di piogge in poche ore, è cambiato il regime. Le nostre città non sono organizzate in maniera tale da permettere un rapido deflusso delle acque e così ci ritroveremo anche in futuro situazioni analoghe”.
“Speriamo che questo evento ci faccia ragionare. Dobbiamo intervenire anche con una pianificazione urbanistica diversa – conclude il geologo – ci sono piani di adattamento climatico dei comuni, per esempio Senigallia ne ha uno del 2018. Ma quello che prevede il piano non è stato attuato”.
Anche Mangialardi auspica un cambio di passo di fronte a eventi meteo così estremi: “Per noi si è riaperta una ferita per le vicende del 2014. C’è la necessità di investire davvero, sapendo che quello che è stato fatto finora non è sufficiente visto il cambio dell’approccio climatico”.
L’alluvione, conclude l’attuale primo cittadino Olivetti, “è un modo per far ragionare tutti”, non solo la Regione “ma anche lo Stato”.