Viaggi

I tassisti tedeschi sono (quasi) peggio di quelli italiani. Provare per credere

Ho sempre pensato che i tedeschi siano degli italiani vestiti peggio. Sono stato in Germania diverse volte, ognuna di esse è stata occasione preziosa per riconsiderare la mitopoiesi collettiva del paese duro e puro, già minata nel recente passato da alcuni disastrosi tonfi d’immagine. Impossibile dimenticare le carenze nel monitoraggio dello stato di salute psicologico degli equipaggi di volo da parte di Lufthansa, una serie di falle che nel marzo del 2015 permisero al pilota renano Andreas Lubitz di prendere il controllo e far schiantare su una montagna delle Alpi francesi il volo Germanwings 9525. Meno tragico, altrettanto emblematico, il malore da stress emotivo che pochi mesi dopo fece collassare sul palco del salone di Francoforte l’allora Ceo di BMW Harald Krueger. A chiudere quell’anno devastante per la narrazione teutonica dell’efficienza fu lo scandalo maestoso del Dieselgate, che mostrò al mondo come la rettitudine tedesca si manifesti perlopiù quando in gioco ci sono i sederi altrui.

Insomma, diciamocela tutta: i cugini nordici sono paraculi quasi quanto noi italiani quando si tratta di curare il proprio orticello. La differenza sta solo nella spazzata: loro sono più propensi a nascondere la polvere sotto i vasi, noi a sventolarla fuori dal recinto. Considerato tutto ciò, mi sono chiesto: se davvero i tedeschi sono meno virtuosi di quello che vogliono farci credere, cosa succederebbe se mettessi a confronto una categoria diciamo a caso – quella dei tassisti, che già in Italia non brilla per simpatia e correttezza – con i colleghi in calze di spugna e scarpe aperte? La mia tesi ne uscirebbe confermata oppure smentita?

Spoiler: la prima. Lo scorso agosto ero a Francoforte per lavoro e, per dirla alla Nicole Minetti in mini-veste di briffatrice di escort per il bunga bunga, ne ho viste di ogni. Non ero seduto – deo gratias – sulle gambine incartapecorite di nonno Silvio ma sui sedili posteriori di numerosi taxi. Neanche a dirlo, quasi tutti senza pos o con pos “non funzionanti”. A un certo punto ho iniziato a pensare che fosse colpa del mio bancomat, ma quando un collega che viaggiava con me ha provato, invano, a pagare con una Visa Gold ho capito l’antifona. Alla fine ho dovuto fare una colletta per raccogliere i nove euro della corsa.

Più scorretto di chi faceva finta che il pos fosse rotto è stato quel tassista che mi ha sì consentito di pagare con la carta, ma aumentando a mia insaputa la transazione di un euro. La vicenda in assoluto più disturbante l’ho vissuta però all’uscita dalla fiera Messe Frankfurt. Non avevo contanti, così al tassista in cima alla fila di auto ho spiegato che avrei potuto solo pagare con la carta il percorso fino all’hotel, tre chilometri circa. Non l’avessi mai fatto. Quel tizio ha scosso il capo per comunicarmi le sue intenzioni, innescando un effetto domino tra i conducenti che lo seguivano a ruota. Un paio hanno fatto finta di non vedermi, altri due si sono divincolati con una sterzata alla Schumacker. Dopo che nessuno dei tassisti in coda mi ha permesso di salire sulla loro auto, sconsolato e arrabbiato ho chiamato un Uber.

Una manciata di minuti e l’autista – Mohammed, un uomo di origine araba che vive in Germania con la moglie e i tre figli – mi attendeva sul lato opposto della strada. Alla fine della corsa, puntuale, ho ricevuto una mail con ricevuta, percorso fatto e possibilità di lasciare un feedback. E ora ripetiamo tutti in coro: vogliamo Uber anche in Italia. Subito. E basta, tassisti italiani, con questa storia della licenza che costa cara. Sappiamo bene in che modo, sempre che li abbiate davvero spesi, recuperate quei soldi. Ora, poiché mi considero un giornalista onesto, devo chiarire una cosa, soprattutto nei confronti di chi pensa che, tassisti a parte, in Germania i pagamenti elettronici siano celebrati come i wurstel sui letti di crauti. Non è così, anzi: è nota l’idiosincrasia di molti commercianti tedeschi verso bancomat e carte di credito di ogni sorta, sentimento giustificato dal fatto che in Germania, al contrario di quanto recentemente disposto in Italia, i Pos non sono obbligatori.

Il denaro contante però, si sa, può generare speculazione. Lo scorso giugno ero a Berlino al concerto dei Pearl Jam: sapete quanto ho speso per un bicchiere d’acqua? Cinque euro, a cui si sono aggiunti tre euro per la cauzione sul bicchiere medesimo. Sempre nei giorni della trasferta agostana a Francoforte ho cenato poi in un paio di noti ristoranti che sul tavolo mostravano targhette con su scritto “Bitte beachten Sie, dass nur Barzahlung möglich ist”: “Si prega di notare che è possibile il pagamento solo in contanti“. Lo scontrino, che in Germania è obbligatorio solo da un paio d’anni, è arrivato dopo sollecito. Insomma, saranno anche poco creativi, men che meno espansivi (tranne quando tracannano ettolitri di birra) e flessibili come un dotto di ferro. Ma quando si tratta di soldi e affari personali, i tedeschi sono degli autentici, insospettabili italiani.