Come funziona l’informazione manipolata? Lo racconta da dietro le quinte un giornalista che ha lavorato un anno in una trasmissione della “tv populista“, nel libro Caccia al nero-Confessioni di un insider della tv populista, appena uscito per Chiarelettere. Niente nomi, sia chiaro. Anonimo è l’autore, anonime sono la trasmissione e la rete, ma non c’è bisogno di spremersi per riconoscere uno stile ben determinato. Basta scorrere quali sono i bersagli che i capi ordinano di colpire con i servizi sul campo: gli “zingari” su tutti, poi gli immigrati in generale, i sindacati, ma anche le tasse, il reddito di cittadinanza. Il racconto diventa via via un manuale della manipolazione. Non serve neppure falsificare interviste e notizie (anche se a volte succede), basta scegliere con cura le persone da far parlare, mandarne in onda solo i pochi frammenti di intervista utili alla tesi e tagliare senza pietà il resto, montare il servizio in modo che inizi e finisca con il messaggio forte che deve restare impresso al telespettatore, indipendentemente dalla verità dei fatti. Anche le famose “piazze” urlanti sono tutt’altro che spontanee – svela l’insider – ma vengono radunate con cura, agenda telefonica alla mano, in base a che cosa si vuole che urlino in favore di telecamera. In studio, poi, ci sono i politici che si prestano al gioco e sulla base di questa fuffa dibattono e si accalorano. Anche quelli di sinistra, sottolinea l’autore.

Qui riportiamo, per gentile concessione dell’editore, una sintesi del capitolo che racconta la manipolazione di un servizio pensato per denigrare il reddito di cittadinanza appena approvato. Lo spunto nasce da un trafiletto “di un giornale di destra” che racconta, senza alcuna verifica, di un imprenditore siciliano che non trova autisti di camion pur offrendo uno stipendio di ben tremila euro al mese. Colpa del reddito di cittadinanza, assicura il titolo dell’articolo. Ma ecco che cosa succede.

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DA “CACCIA AL NERO”, AA. VV., CHIARELETTERE
L’azienda si occupava di autotrasporti e stava effettivamente incontrando difficoltà ad assumere camionisti. Era l’unico dato chiaro contenuto nell’articolo, ma il guaio è che era anche l’unico esatto. Lo scoprii la mattina dopo, quando telefonai al titolare della ditta per fissare un’intervista. Al numero del centralino rispose direttamente lui. Era un uomo dal forte accento siciliano, che doveva aver trascorso la vita a guidare autoarticolati ed era abituato a non perdere mai di vista il nocciolo delle questioni. “Ma ca rèdditu e rèdditu” mi disse senza troppi fronzoli. “L’unico problema qui è pigghiari la patente…”. L’equivoco fu presto chiarito: non è che i lavoratori preferissero starsene a casa con cinquecento euro di sussidio piuttosto che pigliarne tremila faticando, erano operai, mica imbecilli. Il fatto è che per guidare il camion serve la patente C, e la patente C costa un occhio della testa. Semplicemente, molti disoccupati non potevano permettersela. Perciò, dopo aver inviato il curriculum, finivano col fare marcia indietro, ritirando la propria candidatura. Il reddito di cittadinanza, checché ne scrivesse il collega, c’entrava poco o nulla.

La scoperta mi ringalluzzì di colpo. Avevo smascherato una falsa notizia, e per farlo mi erano bastati dieci minuti di telefonata. Credevo di meritarmi perlomeno una pacca sulle spalle, invece non avevo ancora capito nulla. Ginevra, quando la richiamai, fu persino più brusca del giorno prima. “Non ci interessano le patenti” sibilò. “Non stiamo facendo una puntata sulle patenti. A noi interessa il reddito di cittadinanza”. La sua voce era addirittura stizzita: “Vuoi fargli dire delle patenti? Va bene, faglielo dire. Ma il pezzo deve chiudersi con la storia del reddito. ‘La gente se ne sta a casa perché c’è il reddito’, così deve dire il tizio. Deve dire come c’è nell’articolo, okay?”. (…)

Il titolare dell’azienda di autotrasporti si chiamava Domenico, aveva una sessantina d’anni e una discreta concezione di sé. Non era certo un frivolo, ma avere una troupe televisiva a su disposizione lo rendeva tronfio ed espansivo. (…) Ciro (uno degli operatori, ndr) fu abile, non parlò né di reddito né di patenti. Andò subito al sodo. A un certo punto domandò: “Ma chisti babbi che vi mandano i curriculum e poi non si presentano? Possiamo pruvari a chiamarli?”. A Domenico sembrò un’ottima idea. Dopo tante chiacchiere, il suo spirito pratico gli imponeva di mettere al muro qualcuno. Fece tre o quattro telefonate, tutte ugualmente iraconde, pescando a caso tra le richieste d’impiego che gli erano giunte nelle ultime settimane e alle quali non aveva fatto seguito alcun colloquio. I poveracci all’altro capo rimasero muti. Erano tutti operai disoccupati e squattrinatissimi, che se solo avessero potuto permettersi quella maledetta licenza di guida avrebbero iniziato a lavorare seduta stante. La loro unica colpa era quella di non avere i soldi per iscriversi a un’autoscuola.

Ma Domenico era ormai in preda alla furia. “Tremila euro vi davo!” gridava nello smartphone. Rosario riprendeva accuratamente ogni cosa. Ciro mi prese da parte. “Le telefonate sono tutte buone” mi sussurrò in un orecchio. “Ora gli facciamo dire due cose su quanto jè merdoso chistu governo, facciamo tre coperture dell’azienda, qualche stand-up e siamo a posto. Eh… dui minuti di servizio devi fari, mica un documentario”.

“Ma quelli vogliono che si parli del reddito” obiettai per l’ennesima volta. “E u reddito nuautri glielo diamo! Mica ci vuole tanto. Basta chi iddu ci dica dui frasi supra u reddito. Ne mettiamo una a inizio servizio e un’altra alla fine, poi ci saranno i tuoi speech”. Seguitavo a non capire. Ciro allora mi trascinò in un angolo e mi spiegò esattamente che cosa avremmo fatto. “Ascolta”, disse, “primi venti secondi del servizio, lui ci dice chi u reddito jè ’na sciagura. Dopo entri te: ‘Pi colpa du reddito nessuno viene più a lavorare pi chista azienda‘. D’accordo? Poi ci mettiamo le telefonate, che sono belle. E poi di nuovo lui: ‘U governo fa schifu, ci stannu i tasse e u reddito jè ’na mmedda‘. Dui frasi contano: quella iniziale e quella finale, che lancia il dibattito in studio. In mezzo ci po’ mìettiri quel cazzu chi vvoi. Accussì si fa a televisione, carusu meu!’ (…)

Il servizio andò puntualmente in onda, e fu proprio come avevo temuto che fosse. Le quattro frasi di Domenico sul reddito di cittadinanza erano state posizionate con maestria, un paio in testa e un paio in coda, proprio come vaticinato da Ciro. Tutto il resto era stato impietosamente tagliato. Poi c’erano i miei stand-up, che ribadivano la questione del reddito e introducevano le telefonate con gli aspiranti lavorato-ri. Questi ultimi emergevano come degli autentici farabutti, giustamente strigliati da Domenico in un crescendo di musiche drammatiche. Nell’insieme risultava tutto molto convincente, e il banner rosso e nero inserito a piè di schermo – Tremila euro al mese? No grazie, tanto ci mantiene lo Stato – non appariva neanche troppo forzato. In studio, un importante politico di centrodestra commentò il filmato con parole di fuoco.

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