di Roberto Oliveri del Castillo*
Per uno strano incrocio degli eventi, nelle prossime settimane si susseguono due appuntamenti elettorali tra i più importanti di questi ultimi 20 anni, presentandosi prima le elezioni per il rinnovo del Consiglio Superiore della Magistratura, e poi a distanza di una settimana quelle per il Parlamento. La particolare complessità della situazione della giustizia impongono di sottolineare alcuni temi, che nel dibattito politico non hanno sempre il necessario spazio, pur essendo di fondamentale importanza per la migliore efficienza e funzionalità del servizio-giustizia.
Non si può non partire dalla recente riforma del ministro Cartabia, la quale, tra i tanti temi forieri di criticità, ne ha introdotto uno potenzialmente devastante ove non riconsiderato dal nuovo Parlamento. La riforma infatti ha introdotto il principio della improcedibilità in sede di appello, che comporterà la definizione anticipata del processo in appello ove non si giunga alla sentenza nei due anni dal pervenire del fascicolo in secondo grado, anche laddove i termini di prescrizione non si siano maturati. Una ghigliottina che potrebbe riguardare qualunque processo per qualunque reato, a prescindere dalla complessità dello stesso e dalla adeguatezza degli organici dell’ufficio che deve portarlo a compimento. Una riforma, come si è detto da più parti, idonea solo ad ottenere i fondi del Pnrr, ma dannosissima in termini di efficienza del servizio giustizia, tale non essendo una anticipata sentenza processuale di definizione basata sul decorso del tempo, in assenza di strumenti deflattivi e disincentivanti l’appello (ad esempio una revisione del divieto di reformatio in pejus, anche su istanza del pg in udienza) e di strumenti di rafforzamento degli organici dei presidi di secondo grado.
La Commissione europea, nella sua Relazione sullo stato di diritto 2022, non ha mancato di evidenziare ciò che magistratura associata, accademia e la migliore avvocatura avevano già detto, ovvero che la riforma mette seriamente a rischio “l’effettività del sistema giudiziario” soprattutto in tema di contrasto alla corruzione ed alla criminalità economica. Né, come evidenzia la Relazione, “la ricerca di una maggiore efficienza non dovrebbe compromettere l’indipendenza del sistema giudiziario”, con evidente riferimento alle riforme in tema di efficienza del processo penale e giustizia riparativa e, soprattutto, in tema di ordinamento giudiziario e Csm. Quello che vuole dire la Commissione Europea, è che il sistema di valutazione professionale che tenga conto del raggiungimento dei risultati attesi dai dai dirigenti dei Tribunali, con conseguenti possibili azioni disciplinari, costituisce una pericolosa deriva gerarchizzata degli uffici giudiziari e un conseguente strumento di pressione e intimidazione dei giudici attraverso l’uso dello strumento disciplinare.
Se a ciò si aggiungono le gravi carenze di organico in generale e in particolare nelle corti d’appello, con scoperture che toccano oltre il 20% in alcuni uffici già difficili come Napoli, e Bari, il quadro assume toni ancora più foschi, se non si invertirà la tendenza a disinteressarsi del tema delle carenze di personale di magistratura e cancellerie.
Mentre per qualcuno il problema principale è la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, recenti indagini sul punto hanno ad esempio evidenziato che il vero problema della disfunzione del servizio giustizia è altrove. In Italia vi sono 11.4 giudici per 100.000 abitanti, a fronte di una media europea di ben 21. Per i pubblici ministeri la forbice è analoga, o di poco inferiore. Infatti a fronte dei 3.4 PM ogni 100.000 abitanti, la media europea è 11 (dati rapporto CEPEJ 2016). Negli ultimi anni i numeri sono addirittura peggiorati, perché nel frattempo in Germania il numero di giudici per 100.000 abitanti è cresciuto sino a 24, in Austria sino a 27, mentre in Italia è rimasto ai 12 del periodo precedente (fonti citate nell’articolo di Europa Today del 9 luglio 2021). Significative, sul punto, appaiono le dichiarazioni del commissario europeo alla Giustizia Didier Reynders circa il problema delle risorse umane. “Devono aumentare i numeri del personale, a prescindere dalle proposte di separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti” (Europa Today, cit.), che invece resta lo slogan preferito da alcune forze politiche poco interessate alla reale soluzione dei problemi del servizio-giustizia.
In questo quadro, come si possa pensare di ridare efficienza al sistema giustizia con dati così sconfortanti è domanda alla quale qualche leader politico, nella attuale campagna elettorale, dovrebbe rispondere con soluzioni reali invece di vuoti e consunti slogan di sapore punitivo. Analoghi problemi sussistono per il personale amministrativo di supporto, spesso sottodimensionato proprio negli uffici più delicati, come gli uffici GIP-GUP e le Corti d’Appello. La costituzione dell’Ufficio per il processo ha apportato qualche beneficio di superfice, ma si tratta di rimedi a tempo determinato insuscettibili di strutturarsi e sedimentarsi nel tempo, con la conseguenza che giovani risorse andranno perse dopo essere state addestrate a delicati compiti di supporto a giudici e cancellerie. Un altro retaggio della logica delle riforme occasionali e non destinate a restare in permanenza, sempre nell’ottica della percezione dei contributi Ue.
Da questo punto di vista occorrerebbe tra l’altro una vera riforma della magistratura onoraria in grado di rendere stabili e garantiti professionisti che da circa vent’anni sono di quotidiano supporto alla magistratura togata, e senza la quale oggi saremmo alla paralisi, senza consentire a qualche forza politica di farne vessillo di lotta elettorale, poiché la giustizia, sia gestita da magistrati togati od onorari, appartiene a tutti e non può essere strumentalizzata da una parte politica. Una migliore e generalizzata presenza dei magistrati onorari (ad esempio non si comprende perché impedire agli stessi di partecipare a comporre gli uffici GIP/GUP e i collegi di Corte d’Appello) sarebbe un altro tassello importante nell’ottica di una maggiore efficienza della risposta alla domanda di giustizia.
A fronte di questi dati allarmanti, alcune componenti associative della magistratura (per altro quelle più compromesse nelle vicende dell’Hotel Champagne, anche per la presenza di ex dirigenti nella veste di politici militanti) ritengono che il problema delle nomine dei dirigenti si risolva tornando a valorizzare la sola anzianità di servizio, senza considerare altri titoli. Un ritorno alla magistratura degli anni 70/80 del secolo scorso, quando si verificarono al Csm le vicende che condussero, ad esempio, Giovanni Falcone fuori dall’Ufficio Istruzione di Palermo, preferendogli il più anziano Meli.
I dirigenti sono il cuore pulsante di un ufficio giudiziario, e da loro dipende organizzazione, efficienza, legittimità dell’azione e del servizio reso. Un buon dirigente può dare un impronta molto importante al suo ufficio, e viceversa un pessimo dirigente può affossarlo. Nella consiliatura 2015-2018 si sono registrati i peggiori fenomeni clientelari e di malaffare proprio con riferimento a nomine di direttivi di procure della repubblica e (molto meno) di tribunali, con nomine di soggetti poi finiti al centro di indagini per gravi reati, e con le tristi vicende dell’Hotel Champagne, di cui da alcuni anni vi è cenno nelle cronache giudiziarie di questo Paese. Chi si è macchiato di quelle vicende, con conclamati rapporti con soggetti politici estranei al Consiglio Superiore, dovrebbe almeno avere il buon gusto di tacere, invece di ergersi a paladino di una ben strana (e tardiva) lotta contro un “sistema” del quale era parte apicale, autorevole e integrante.
Allora le elezioni del prossimo Csm costituiscono un punto di svolta. Il Consiglio in tutte le sue parti, togate e non, sarà chiamato pertanto ad una opera di ristrutturazione della credibilità dell’intera magistratura attraverso l’attenzione necessaria a nomine di direttivi che avvengano effettivamente per merito e non per rapporti clientelari e di potere, oltretutto con gli enormi poteri disciplinari assegnati dalla riforma del ministro Cartabia. Si vuole un Consiglio ripropositivo delle logiche clientelari e di subordinazione degli ultimi tempi? Si vuole realmente tornare a dirigenti scelti per anzianità e non per merito? O si vuole finalmente cambiare pagina? Chi ha indegnamente rivestito il ruolo di consigliere (e chi lo ha votato) ha lasciato una eredità pesante ai colleghi del prossimo Consiglio, il quale dovrà recuperare senso e prestigio della funzione costituzionale di governo autonomo, rimettendo in carreggiata un organo senza il quale la democrazia di questo Paese è in serio pericolo.
Sono convinto che la magistratura saprà trovare al suo interno le energie migliori, senza distinzioni di componenti culturali, per ridare prestigio e dignità al Consiglio Superiore. Ma ciò potrà avvenire guardando al futuro e non alla magistratura più retriva degli anni 50, quella che fu descritta da Dante Troisi nel suo Diario di un giudice, la cui redazione gli costò, tanto per cambiare, un procedimento disciplinare.
* Consigliere della Corte d’Appello di Bari, candidato alle elezioni per il Csm con Autonomia e Indipendenza