A volte ritorna anche Maigret. Ed è un bel vedere. L’intramontabile commissario creato dalla penna di Georges Simenon rivive nelle sale italiane grazie a Maigret diretto da Patrice Leconte. Una decisa virata verso un’ansa ombrosa e nostalgica delle indagini del commissario che lavora al 36 de Quai des Orfevres. Tratto dal giallo “Maigret e la giovane morta”, Leconte mette in scena una di quelle puntate tra le più introspettive del commissario parigino, quasi biografica, con una mimesi esistenziale e un’attenzione affettiva verso la vittima che Maigret non sempre ha concesso nel suo quieto e muto indagare.
Una giovane ragazza viene trovata morta accoltellata in un parco. Vestita con un abito elegante e costoso, nessuno ne reclama la scomparsa e non c’è modo di identificarla. Sembra “un uccellino caduto dal nido”, smarrita, fuori posto, che passa inosservata. Toccherà al commissario e ai suoi solerti aiutanti (un po’ la formazione tipo: Lapointe, Lucas, Janvier…) venire a capo di una strana partecipazione ad una raffinata festa da ballo dove la ragazza è intervenuta probabilmente alticcia e drogata e subito cacciata da un terzetto di una certa spietatezza. Maigret concentrerà le sue indagini, appunto, su una vivace giovane attricetta, il suo aristocratico fidanzato che pare impotente e l’arcigna mamma di lui. Ma non è tanto la soluzione del presunto delitto, dove la sorte della povera gente sembra più determinante della volontà dell’odio dei ricchi signori, ad interessare Leconte (allo script con l’ottimo Jerome Tonnere); quanto la deviazione di scrittura e di senso che la trama prende subito con Maigret che, nell’indagare antropologico ed umano della società che ronza attorno a vittima e possibili carnefici, come è tipico nei romanzi di Simenon, fa amicizia con una ragazza spiantata di provincia che come la vittima cerca di campare a Parigi tra furtarelli, pasti offerti, e partecipazioni a festini piccanti.
Il commissario così procede nelle sue deduzioni e intanto dà come la possibilità alla giovane amica di rifarsi una piccola dignitosa vita, sovrapponendone le sembianze alla ragazza morta e ad un’altra figura che rimbalza come un lancinante ricordo familiare nella vita di Maigret. Inutile dire che l’atmosfera anni cinquanta sa di quadro cromaticamente classico e di emotivamente trattenuto. Maigret di Leconte è un film in cui c’è più desiderio di esplorazione delle psicologie dei singoli che di periplo attorno al thriller poliziesco. Del resto Maigret è una figura bonariamente statica, osservatrice attenta dei caratteri altrui, che Leconte azzarda incrociare tra punto di vista neutro della regia a qualche fugace sguardo in soggettiva. Gerard Depardieu fa il resto. Laconico, con una mole ingombrante oltremisura, l’andatura lenta che mai accelera di mezzo metro, e un tono di voce modulato su un timbro mai minimamente urlato, Depardieu/Maigret permette all’intero film di tenere il suo passo: sbirciare oltre le porte chiuse dei silenzi conformisti, senza troppo sporcarsi il cappotto ben abbottonato, l’orrore scabro dell’odio sociale e del fato maligno che lo circondano.