Un anno fa, il 19 settembre, moriva il compositore Sylvano Bussotti (1931-2021), pochi giorni prima dei novant’anni. È stato un artista a tutto tondo: musicista, ma anche pittore,
costumista, attore, scrittore, coreografo, regista. Considerato un fulgido erede della composizione monodica (canti a una sola voce), Sylvano Bussotti ha esplorato le frontiere della vocalità (celebri le sue collaborazioni con Cathy Barberian). Come compositore teatrale e come regista lirico ha puntato alla piena simbiosi di musica, danza, parola e pittura. Nell’anniversario ilfattoquotidiano.it ha chiesto a Rocco Quaglia, ballerino e coreografo, suo compagno di una vita, di ricordarcelo.
Rocco, com’era Bussotti compositore?
Lo dico con due righe. Sylvano le annotò in un pezzetto di carta: “Il mio lavoro è una costellazione di utopie della quale si realizzano pezzi, frammenti; ma queste utopie restano tutte compresenti in me”.
Bello. E come lavorava?
Al mattino si vestiva, faceva colazione, si sedeva al tavolo e componeva, o disegnava, a prescindere dall’ispirazione. Era estraniato, come se scrivesse sotto dettatura (ride).
Su carta?
I primi tempi componeva su carta lucida con inchiostro di china. Se capitava una macchia, la grattava via, oppure ci sviluppava su un’idea musicale, teatrale: una sorta di alea alla John Cage.
Era autodidatta.
Sì. La formazione pittorica la deve al padre, che lo portava nei musei. Lo zio Tono Zancanaro, pittore, lo spronava a disegnare. Il fratello Renzo, di sei anni più grande, lo conduceva alle mostre, e Sylvano studiava i cataloghi. Alcuni suoi disegni del ’47-’48 sembrano davvero avveniristici.
La sua grafia musicale è infatti pittura vera e propria.
Sì, è vera pittura. Ci sono in rete anche magliette con riprodotto un brano dei Five Pieces for David Tudor. E ci sono bei disegni dei suoi allievi, come quelli del giapponese Hidehiko Hinohara.
Grafia, disegno, pittura concorrono al grande teatro di Sylvano.
Certo, tutto rientra lì: progettava anche scene e costumi.
Autodidatta, ma con incontri musicali importanti.
Una breve esperienza a Darmstadt, e soprattutto John Cage. Da lui ha imparato a trasformare qualsiasi elemento, perfino un incidente, in composizione musicale. Ho accennato prima alle macchie… Cage gli ha fatto scoprire l’importanza del “caso”.
Ci dica del caso, dell’alea.
Una volta, in concerto, chiudendo il pianoforte cadde il coperchio. Fu un cluster incredibile. Il pubblico applaudiva, lui era mortificato. Cage gli diede una gomitata: “Prenditi i complimenti, zitto, va bene così”!
Nel suo teatro c’è un elemento unificante: l’eros.
L’eros ha molte facce. Quando ci conoscemmo, lo ha focalizzato in me: ballavo nudo, con il solo sospensorio. Iniziai nel Lorenzaccio (1972). Poi fui Eros nell’Incoronazione di Poppea, scene e costumi di Zancanaro, e tenevo le redini alla Virtù e alla Fortuna, due ballerine. Fu la prima coreografia di Sylvano (1975).
Prestava attenzione alla voce.
La voce era la vita, la musica, il piacere. Era legata soprattutto a Cathy Berberian. Lei si appropriava delle composizioni di Cage, Berio, Bussotti, e le trasformava: con la sua voce si costruiva delle proprie partiture.
Altro elemento del teatro è il filo della memoria.
La memoria riscrive il passato nel presente; seleziona e ripropone, ingloba il vecchio nelle nuove composizioni. Per Sylvano è importante anche nel quotidiano: memoria per i genitori, per gli amici. Nel suo In memoriam per Cathy Berberian arte e vita si fondono. Se però qualcuno spariva dalla sua esistenza, lui lo dimenticava, come se liberasse la mente.
Un altro esempio?
In Le Rarità: Potente (1979) usa i vestiti della madre, ormai alla fine della vita, e li fa indossare ai personaggi femminili. Sublima nell’arte la perdita.
Che rapporti aveva con i compositori a lui vicini?
Con Berio, Donatoni, Manzoni, amicizia cordiale, non stretta. Con Sciarrino il rapporto si allentò. Quando fu direttore artistico alla Biennale chiamò subito Luis de Pablo, che ammirava moltissimo, ma anche Giorgio Battistelli e Claudio Lugo. Intensa è sempre stata l’amicizia col pianista Mauro Castellano, che suona tutta la musica pianistica di Sylvano.
Ci sono varie pubblicazioni su Bussotti.
Di Luigi Esposito, compositore, c’è Il male incontenibile. Hanno scritto su di lui Daniela Tortora, Federica Marsico, Giovanna Morelli, Daniele Lombardi, Jürgen Maehder.
C’è un bel libro di Renzo Cresti pubblicato dall’editore fiorentino Maschietto.
Sì, Federico Maschietto è un editore d’eccezione: carta meravigliosa, libri curatissimi. Ha fatto anche il catalogo della mostra Corpi da musica: vita e teatro di Sylvano Bussotti (Firenze 2010).
Sylvano è stato anche organizzatore.
Oltre il lavoro alla Biennale, nell’85-’86 abbiamo varato, a Genazzano, il B.O.B. (Bussotti Opera Ballet). Lui dava indicazioni, io le realizzavo. Con noi c’era Teresa Antonelli, del Comune di Genazzano, che ci ha assistiti sempre. È cresciuta una scuola di danza e musica, con più di 100 allievi: vi insegnavano allievi di Sylvano, e abbiamo prodotto tanti spettacoli con vari compositori.
Non sempre ebbe rapporti idillici con gli enti lirici.
Pretendeva la perfezione, era categorico, e ciò non semplificava. E si diceva che i suoi lavori fossero troppo cari.
Che rapporto ha avuto con lui?
Io ero il coniuge, l’ho detto sempre a chiunque. Sylvano era un incredibile “creativo”, cambiava da un giorno all’altro scene e regìa. In teatro rimanevano interdetti. Allora ho cercato di sistematizzare, di dare continuità alle sue creazioni.
Lei ha dunque “ordinato” la sua creatività.
Con la mania dell’ordinare, mi è venuto il dubbio di avergliene tolta qualche briciola. (ride)
Non ci credo. La creatività di Bussotti era incomprimibile.
Lo penso anch’io, ma talvolta ci si fa dei sensi di colpa…