Ogni volta si ripete lo stesso copione, ogni volta ci sentiamo dire: “non è importante declinare al femminile un nome” eppure quando si rivendica l’applicazione corretta di una banale regola grammaticale ci sono reazioni rabbiose, talvolta sopra le righe fino alla volgarità. Evidentemente la affermazione o, al contrario, il silenziamento delle forme al femminile (ma solo in alcuni casi e vedremo quali) non è affatto questione di lana caprina ma di notevole peso, se ci sono così tante aspre resistenze a un cambiamento che avanza, nonostante tutto.

L’ultima “perla” è la rabbiosa reazione misogina di Libero con l’invettiva del direttore Alessandro Sallusti che si scaglia contro la scandalosissima, perturbante e ansiogena declinazione dei nomi e degli aggettivi al femminile nel nuovo dizionario Treccani che sarà presentato il prossimo ottobre (ne ha scritto Monica Lanfranco). Il titolo dell’articolo che sbeffeggia la Treccani, le femministe e le donne prendendo in giro “una battaglia di civiltà”, perché c’è qualcosa di più importante di cui occuparsi come la guerra in Ucraina, è il seguente: Treccani? No, “Treccagne”: roba da matti, ecco il dizionario… della Boldrini. Un gioco di parole in un’ingiuria sessista perché “cane” declinato al femminile viene sempre facile quando si rivolgono ingiurie alle donne, lo urlano molestatori in strada, uomini maltrattanti o lo scrivono direttori di quotidiani terrorizzati dalla lettera A e dalla lenta erosione della prospettiva androcentrica che ha garantito privilegi maschili e discriminazioni femminili.

Nominare il femminile nel linguaggio, dovrebbe essere chiaro per chiunque, è un atto rivoluzionario perché ci dice che le donne non stanno più al loro posto, che possono andare dappertutto e anche immaginare scelte che erano impensabili per le loro madri o nonne.

Hai voglia a domandare: “ma perché vi pare normale il femminile per cameriera, infermiera, maestra, netturbina, commessa, operaia ma vi infastidiscono parole quali medica, ministra, fisica, senatrice, direttrice, questora, prefetta, magistrata? Non c’entra nulla la cacofonia o altre corbellerie. Non facciamo altro che adoperare parole cacofoniche, storpiature dall’inglese, neologismi tremendi dai social senza fare un plissé e pronunciamo tranquillamente la parola “ostetrico” quando una professione storicamente femminile viene svolta da un uomo. Nessuno si rivolgerebbe a lui chiamandolo “ostetrica”, perché parrebbe del tutto inopportuno, ma si è convinti ancora di valorizzare una professi0nista (e purtroppo molte donne la pensano così) usando il maschile perché una O ne aumenta il prestigio e ne valorizza la competenza.

Se, come ricorda Monica Lanfranco, fino al 1980 nelle scuole elementari si insegnava che nella grammatica (e non solo) il genere maschile è quello nobile, che cos’è il genere femminile se non quello negletto?

Che cosa c’è in gioco se non una grande e straordinaria trasformazione culturale che sfida la disparità e l’asimmetria tra uomini e donne e alla quale coloro che hanno paura di perdere il privilegio del paradigma androcentrico (e le donne che difendono quel privilegio anche a discapito di se stesse) rispondono con reazioni volgari, aggressive e persino violente. Libero è uno dei tanti esempi della pochezza di chi non sa nemmeno immaginare relazioni migliori tra uomini e donne, senza gerarchie, senza discriminazioni e senza violenza e rafforza risibili argomentazioni con il sessismo.

Sallusti si allarma per una A e le matte saremmo noi?

@nadiesdaa

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