Capita persino che Bolzano possa diventare capitale d’una Italia imprevedibile e diversa da quel che ci raccontano tante desolanti cronache e sondaggi. Sarà pure una magia teatrale, ma succede per davvero. Una città, Bolzano, o Bozen come dicono loro, che potrebbe essere riassunta dal suo monumentale Ginko biloba, regalo nientemeno che della principessa Sissi: l’albero ha resistito per oltre 150 anni sopportando anche due guerre mondiali e oggi è custodito in un vaso da guinness dei primati, di dieci metri di diametro, dentro al Palais Campofranco, la nuova area vetrina accanto alla storica piazza Walther. Il Ginko svetta come il cuore verde di un centro storico gioiello, sempre molto amato dai turisti, soprattutto austriaci e tedeschi, a suggerire che la chiave anche della ricchezza commerciale di oggi non è solo tra botteghe e alberghi e ristoranti e mercatini. E nemmeno negli impianti di risalita.

C’è un’altra chiave con cui si può comprendere il paradosso di Bolzano capitale ed è proprio culturale, si snoda lungo un asse urbano ben diverso da quell’immagine da vecchio Tirolo rimodernato e conservato perfettamente: ha una sorta di nuovo emisfero cerebrale sinistro nell’edificio razionalista Black Monolith al Noi Technopark (Nature Of Innovation), frutto del recupero di una grandiosa area industriale di Oltrisarco-Aslago, di cui svetta ancora la torre idrica; ma a segnarlo dentro il centro storico sono le architetture del teatro comunale, una sorta di ziggurat post-moderno firmato da Marco Zanuso, e del Museion, un cubo di vetro dello studio berlinese Kruger Schuberth Vandreike. In questo centro d’arte contemporanea, a pochi passi dal battutissimo museo archeologico che custodisce la mummia di Otzi, s’è appena conclusa la prima mostra europea dedicata alla lunga e a tratti controversa carriera dell’artista militante filippino David Medalla, e si sta per aprire un’importante collettiva post-Covid, con lavori di artisti di tutto il mondo proprio sul rapporto tra salute e malattia.

Al Comunale tiene banco, fino al 24 settembre, Transart, forse la rassegna più interessante di musica, teatro e arti performative, tra le tante di primissimo livello che si tengono a Bolzano. Solo qui si possono trovare proposte innovative radicali, persino “scandalose”, che in gran parte dei nostri teatri non trovano mai posto, come è accaduto il 13 settembre, con Billy’s Violence. All’opposto di un dilagante politicamente corretto, la straordinaria compagnia di teatro-danza Need Company di Jan Lauwers spolpa in dieci blocchi la violenza sulle donne nei testi di Shakespeare e la ripropone come uno specchio deformato del nostro mondo. Altro che moralismi da editoriale del giornalone progressista e strizzate d’occhio alle mode della fluidità, che si possono vedere sul tal palcoscenico piccolo o grande che sia.

Dalla riscrittura dei brani shakespeariani più crudeli, Lauwers fa nascere una performance al limite dell’accettabile, e che spesso oltrepassa quel limite, mostrando il maschile e il femminile senza ipocrisie, nel degrado dei sentimenti, nelle prepotenze verbali e nei corpi vessati, nel sangue, negli escrementi, nelle perversioni, nelle torture e persino nelle mutilazioni, seppur bene simulate. Risuonano i testi originali, nonostante tutti fatalmente finiscano per perdere la parola tossendo, con un esito analogo a quelli da long Covid. A legare poi tutto con un filo rosso che più rosso non si può è il performer-musicista Marteen Seghers, in scena nei panni di un buffone, che cura anche le varie sonorizzazioni vocali. Le riletture paiono sconvolgenti: Cleopatra è alle prese con un Marco Antonio pazzo e sanguinario, che spacca la testa a un poveraccio che osa ammirarla; re Lear è interpretato da un attore spagnolo come un vecchio quasi nudo, a metà tra un paziente d’ospizio con l’Alzheimer e un pedofilo incestuoso; se Lavinia deve subire le torture, Desdemona finisce a pezzi in un sacco nero; Amleto pretende il suicidio da una bipolare Ofelia; Romeo e Giulietta sono due giovinetti sciocchi e un po’ pervertiti, ritratti tra le mosche nella tomba, in un pezzo quasi comico; Lady Macbeth, nel gran finale, guida tutto il cast in un bagno di sangue con cinque inquietanti bambole.

Il pubblico, seppur ammaliato, è a tratti esterrefatto, qualcuno sommessamente lascia la sala, ma alla fine tre grandi giri d’applausi salutano i lerci e nudi protagonisti, tra cui spiccano, oltre a Seghers, Grace Ellen Barkey, cofondatrice di Need Company, e Martha Gardner, che ha il coraggio d’andare in scena con un vistoso pancione da maternità. Billy’s Violence ha debuttato al festival di Barcellona, dopo aver raccolto i principali coproduttori in Spagna, suscitando un discreto vespaio per l’eccesso di crudeltà e di violenze nonché, secondo alcuni critici, per l’infedeltà al canone shakespeariano. In Italia se ne è parlato poco o nulla. Non è una novità che si discuta dei lavori di Jan Lauwers, che in quest’impresa ha avuto accanto il figlio Victor Afung come autore (in scena c’è anche la giovanissima figlia avuta con la Barkey, Romy Louise).

Del resto, è un maestro che crede ancora nella forza di un teatro “in grado di dare ossigeno all’umanità e di provocare micro-cambiamenti dentro le persone”, e perciò ha scelto da anni di fare spettacoli di “presentazione”, ripudiando la moda dominante di un “teatro della rappresentazione”, “dove ci si interroga su come mettere in scena una storia piuttosto che sul perché e sul quando”. Need company e Lauwers erano già stati anni fa a Transart, una manifestazione che deve tanto alla caratura internazionale del fondatore Peter Paul Kainrath, pianista e manager culturale: solo qui si possono permettere di ospitare proposte come Billy’s violence, accanto, per esempio, a una sequenza di veri e propri eventi che ribadiscono il segno di “Bolzano città della pace”, mostrando il legame profondo tra il mondo russo e ucraino, tra cui il lavoro di Natalia Pschenitschnikova sulle voci dei vecchi ucraini.

Le Caserme Mercanti di Appiano riaprono per ospitare un’installazione performativa sulla delusione ideologica, la sorveglianza e la manipolazione del potere, dell’artista russo Kirill Savchenkov, che avrebbe dovuto rappresentare la Russia alla Biennale di Venezia ma non si è presentato in segno di protesta. Per non dire, ancora, della presenza di musicisti del livello di Valentin Silvestrov, che suggella la Cantata conclusiva al Technopark Noi (dove, peraltro, si potrà anche vedere per alcuni giorni la proiezione di Overseas, prima parte di una trilogia sulle condizioni di lavoro in alto mare, realizzata dal duo di artisti altoatesini di Amburgo Tò Su). E persino un festoso dj-set, organizzato da Transart e Museion per il 23 notte, come The Advanced clubbing by Mutek, può diventare un evento in grado di richiamare il meglio della sperimentazione elettronica internazionale.

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