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Funerali regina Elisabetta, addio regina pop

Elisabetta II d’Inghilterra, regina che non doveva diventare regina, conservatrice fino al midollo, alla fine ha accettato il suo destino da campionessa ultrapop, da figurina di un tempo che ha bisogno di simboli che sappiano quantomeno fingere di saper stare allo stesso livello della gente comune

di Domenico Naso

Elisabetta II è stata la regina più pop della storia del Regno Unito e uno dei personaggi più pop dell’ultimo secolo. Nessun sovrano britannico, uomo e donna poco importa, è mai riuscito a diventare così popolare, così “largo”, a far sentire così forte la propria presenza della vita quotidiana e nell’immaginario dei propri sudditi e di miliardi di altre persone in giro per il mondo. Bella forza, penseranno alcuni: diventare “pop” nel Ventesimo secolo non era mica così difficile, prima grazie alla tv e all’avvento della società dell’immagine e poi grazie alla rivoluzione tecnologica e alla voracità di aneddotica pop tipica dei social media. Se poi sei la regina d’Inghilterra, il gioco è fatto.

Peccato, però, che Elisabetta II sia diventata un personaggio pop suo malgrado e soprattutto dopo decenni non proprio di idillio con il comune sentire di una società britannica in costante mutamento. La regina è diventata pop suo malgrado, dicevamo, perché per attitudine personale non lo era affatto e non voleva e non poteva esserlo. La sua vita, le vicende familiari tragiche e rocambolesche, la longevità di un regno che sembrava non dover finire mai, hanno fatto quello che lei non avrebbe mai fatto di sua iniziativa: trasformarla in una sorta di icona popolare, in una rockstar in tailleur e cappellino, in una delle figure più immediatamente riconoscibili dell’ultimo secolo di storia del mondo: Che Guevara, Marylin Monroe, Elvis Presley, Michael Jackson. E poi lei, la regina che non doveva neppure diventarlo, figlia di un re timido costretto a sobbarcarsi il peso della corona per le bizze di un fratello che aveva deciso di non sottostare alla buona creanza di Palazzo.

Dedita ai doveri che il suo ruolo imponeva, sorridente ma con misura e contegno, Elisabetta ha avuto anche la fortuna di avere al suo fianco un marito come Filippo di Edimburgo che aveva compreso sicuramente prima di lei l’incredibile potere dei mass media nella creazione di una narrazione che travalicasse il protocollo reale, che diventasse parte integrante del tessuto sociale e culturale della nazione. È stato Filippo, ad esempio, a insistere (contro il parere di Churchill) per trasmettere l’incoronazione in diretta televisiva.

Nel corso degli anni, poi, è stata la cultura pop ad attirare a sé la sovrana britannica, quasi a riconoscerne l’enorme potenziale. Quando scoppia la Beatlesmania e i quattro di Liverpool diventano più famosi di Gesù Cristo, Elisabetta non storce il naso, non rifiuta il fenomeno anzi lo istituzionalizza decidendo di nominare baronetti John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr, quattro ragazzotti poco più che ventenni, per giunta figli della classe operaia dell’Inghilterra industriale e fumosa del nord.

Il decennio successivo, però, è quello della ribellione, dell’iconoclastia, dei giovani inglesi che detestano tutto quello che è tradizionale e istituzionale, è il decennio dei punk e dei Sex Pistols che in “God save the queen” , nel 1977, cantano “Dio salvi la regina, il regime fascista” e ancora “lei non è un essere umano e non c’è futuro per i sogni dell’Inghilterra”. Bandita dalla Bbc e rifiutata da molti negozi di dischi, la canzone però sortisce l’effetto di mettere a confronto la sovrana, donna decisamente d’altri tempi, con una gioventù strappata, col trucco sbavato e con la cresta che all’epoca dell’incoronazione non c’era neppure e che non riusciva a concepire la persistenza di una istituzione tradizionale come la monarchia in un’Inghilterra in piena crisi sociale, economica e morale. Negli anni Ottanta, poi, sarà Morrissey con i suoi The Smiths a essere ancora più irriverente con “The Queen is dead”, altro pezzo anti-monarchico, altra impennata pubblicitaria mica da ridere, soprattutto per lei, la regina, destinataria di quell’invettiva musicale.

Ma gli anni Ottanta sono anche gli anni in cui la donna copertina della Royal Family non è più Elisabetta ma la giovane e candida Diana, sposa dell’erede al trono e lei sì scientemente impegnata, con successo ineguagliabile, nella costruzione di una immagine pop che resterà nella storia. Poi le cose sono andate come tutti sappiamo: i tradimenti, le interviste in tv, il divorzio, la scelta di Diana di vivere liberamente e pubblicamente la propria vita, anche sentimentale, nonostante fosse l’ex moglie dell’erede al trono d’Inghilterra. In quel periodo, Elisabetta II raggiunge il livello più basso di popolarità dei suoi settant’anni di regno. Nella narrazione popolare della principessa triste, della principessa del popolo che affronta da sola l’austera e anaffettiva famiglia reale, la regina è l’antagonista per eccellenza, il “villain” perfetto. Diana ed Elisabetta in fondo erano agli antipodi. Popolarissime entrambe ma diversissime tra loro. Pubblico e privato, mondanità e riservatezza, tappeto rosso e basso profilo: due antagoniste ideali per una società fondata sui media e sul loro potere. E quando l’eroina della fiaba muore tragicamente, l’antagonista deve affrontare un dilemma personale, prima che costituzionale e di opportunità: parlare alla nazione o restare nell’ombra? Alla fine, cedendo anche alle pressioni del giovane neopremier laburista Tony Blair, si rivolge ai sudditi con un messaggio che diventerà parte della storia, apostrofando l’ex nuora come “un essere umano eccezionale e pieno di doti”. Una resa alla popolarità di Diana, dissero allora in molti, con tanto di funerali di Stato per la giovane donna che le aveva causato più di qualche grattacapo.

Ma quando Diana muore e la regina cede alla sua immensa carica mediatica, qualcosa cambia radicalmente nella percezione pubblica di Elisabetta e soprattutto nel rapporto con il popolo britannico. Non è più la cattiva della storia. Ora è una canuta sovrana che giorno dopo giorno riesce a trovare dentro sé un’empatia verso gli inglesi che forse non aveva mai avuto prima. Gli anni passano, arriva il terzo millennio e la costruzione del personaggio pop arriva al livello massimo: nei negozietti di oggettistica di tutto il mondo spunta la bambolina della sovrana in tailleur pastello con la mano che continua a muoversi nel consueto saluto delle occasioni pubbliche e nel frattempo i nipoti sono diventati giovani uomini e l’esposizione mediatica torna ai livelli di Diana. Ma adesso Elisabetta ha decenni di regno alle spalle che le hanno insegnato tanto, spesso a sue spese. Ora sa muoversi meglio tra i rivoli insidiosi della società dell’informazione.

Nel 2012, per le Olimpiadi di Londra, si presta a girare un godibilissimo sketch con Daniel Craig nei panni di James Bond. L’agente segreto passa a prendere la regina a Buckingham Palace e insieme salgono su un elicottero. Dall’elicottero, proprio mentre sorvola lo stadio olimpico, si lancia un paracadutista vestito esattamente come la regina. Ecco, ora Elisabetta sa persino far ridere, sa smitizzare se stessa e l’istituzione seriosissima che rappresenta. E farà lo stesso solo pochi mesi fa, in occasione del Giubileo. Stavolta a Palazzo arriva l’orsetto Paddington, invitato per un tè per due con una divertita sovrana.

Elisabetta II d’Inghilterra, regina che non doveva diventare regina, conservatrice fino al midollo, alla fine ha accettato il suo destino da campionessa ultrapop, da figurina di un tempo che ha bisogno di simboli che sappiano quantomeno fingere di saper stare allo stesso livello della gente comune. Adesso la seconda epoca elisabettiana passa alla storia. Anche a quella della cultura popolare. Forse la cultura che più conta, di questi tempi.

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