Martedì 27 settembre si terrà a Mansura la nuova udienza del processo che vede lo studente egiziano dell’università di Bologna Patrick Zaki imputato del reato di “diffusione di notizie false”.
Da mesi l’attenzione su questa vicenda è calata, come se la scarcerazione di Patrick – disposta lo scorso 8 dicembre, dopo 22 mesi di carcere duro – avesse fatto tirare un sospiro di sollievo e avesse rappresentato il momento del distacco emotivo dalla campagna iniziata l’8 febbraio del 2020. È come se, a fronte delle varie sessioni-lampo con cui si trascina il processo, fosse venuta meno l’urgenza “perché tanto, finita l’udienza, torna a casa”.
Nel giorno della prossima settimana in cui si commenteranno i risultati delle elezioni politiche, Patrick non sarà la notizia, e forse neanche una notizia.
Questo silenzio, unito alla mancanza d’iniziativa della Farnesina di questi mesi, è esattamente ciò di cui ha bisogno il governo egiziano, che marcia indisturbato verso il momento autocelebrativo della Cop-27, forte anche del ruolo sempre più forte di fornitore di idrocarburi grazie alla guerra della Russia contro l’Ucraina.
In questi mesi, Patrick ha visto uscire dal carcere persone che hanno condiviso la prigione con lui, innocenti come lui. La più recente, giovedì scorso, Haitham Mohamedeen, attivista di sinistra, sindacalista e avvocato, rilasciato dopo quasi quattro anni di detenzione senza processo.
Quelle persone Patrick è andato ad accoglierle appena tornate libere, da vero difensore dei diritti umani quale è. Ha dato e ricevuto abbracci, poi immagino sia rientrato nel suo appartamento al Cairo chiedendosi quando sarebbe stato il suo turno e perché non fosse ancora il suo turno.
Patrick non può lasciare l’Egitto, non può tornare a Bologna a riprendere gli studi che ha interrotto, contro la sua volontà, oltre 30 mesi fa. Non sappiamo come andrà a finire l’udienza di martedì prossimo, quanto ancora durerà questo tempo sospeso e perso.