Dopo le denunce delle candidate di Sinistra italiana sulla situazione umbra, analizziamo come funziona il sistema in tutte le Regioni. Il problema ruota intorno al certificato di Ivg che viene rilasciato solo dopo un'ecografia (anche se poi sarà rifatta in ospedale): "E' una malpractice dal punto di vista sanitario"
È della settimana scorsa la denuncia da parte di due deputate, Elisabetta Piccolotti (Sinistra italiana) ed Eleonora Evi (Verdi) di avere ricevuto segnalazioni dall’Umbria di donne costrette ad ascoltare il battito del feto per poter accedere all’interruzione volontaria di gravidanza. La Regione Umbria non ha atteso molto per controbattere e negare la veridicità di quanto denunciato, mentre il ministro della Salute Roberto Speranza prima ha dichiarato di non saperne niente e poi che sta valutando un’ispezione. L’accusa alla Regione Umbria è di imitare l’Ungheria, dove dal 15 settembre le donne che vogliono abortire saranno obbligate ad ascoltare il suono del battito cardiaco fetale per poter accedere alla procedura, secondo il nuovo decreto emanato da Sándor Pintér, ministro degli Interni del governo di destra di Viktor Orbán’.
Bisogna sapere che in Italia, in alcuni ospedali ospedali e consultori, si è diffusa la pratica per cui il documento che attesta la volontà di abortire della donna non viene rilasciato se prima l’ecografia non rileva la presenza del battito cardiaco fetale (attenzione: non pensate a un cuore fatto e finito, ma a un primo abbozzo cellulare). Quando la donna accede all’ospedale per iniziare l’avvio della procedura chirurgica o farmacologica, le sarà comunque fatta un’ecografia per gli accertamenti dovuti (datazione e controllo che non vi sia gravidanza extrauterina): le strutture (pubbliche e private convenzionate) sono rimborsate dal Servizio Sanitario Nazionale per compiere tutti gli accertamenti necessari dallo Stato per farla.
A che pro, dunque, questa doppia ecografia? Nella maggioranza dei casi, l’abitudine di aspettare di vedere il battito per fare la certificazione si è consolidata come prassi medica senza essere esplicitamente formalizzata, cosa che invece ha fatto la Regione Emilia-Romagna, che per tradizione amministrativa è solita produrre protocolli sulle procedure socio-sanitarie. Come vi abbiamo raccontato su ilfattoquotidiano.it, secondo il protocollo per l’interruzione volontaria di gravidanza (DPG/2021/23066 del 18/11/2021 consultabile sul sito della Regione Emilia Romagna) “il certificato di IVG viene redatto quando c’è evidenza di una gravidanza in evoluzione”. Tradotto: no battito, no certificato. No certificato, no aborto. La procedura viene così motivata: “Una interruzione volontaria di gravidanza può avere un impatto psicologicamente diverso rispetto a un aborto spontaneo e inoltre ci sono due tipologie di percorso differenti”. “Alcuni colleghi e colleghe presumono che la donna potrebbe uscirne meno ‘traumatizzata’ se l’aborto fosse spontaneo, e non dovuto a una sua decisione. Questa è una loro presunzione. Stare ad aspettare altro tempo e tornare a fare nuove ecografie, per vedere se per caso la gravidanza non fosse evolutiva, comunque lo dovrebbe decidere la donna e non il medico” – commenta Anna Uglietti, già responsabile del servizio IVG della Clinica Mangiagalli di Milano.
Questa procedura non è neppure giustificata dalla legge. Come ha ricordato Lisa Canitano (Ass. Vita di donna), secondo la legge 194/78 il documento che attesta la volontà di una donna di abortire deve essere rilasciato da una figura medica o da un consultorio, ma non è di per sé una procedura sanitaria. L’ecografia, in base alla legge, non è necessaria per accedere all’IVG. Anzi, si traduce in un ostacolo. Intanto bisogna trovare qualcuno che l’ecografia te la faccia e, visto il depauperamento in cui versano i consultori italiani – eccetto alcune regioni – questo può significare l’obbligo di rivolgersi alle strutture private a pagamento. Inoltre, l’attesa del fatidico battito implica tempi di attesa imposti alla donna, anche quando lei si è mossa subito per abortire, come nel caso che abbiamo raccontato nelle scorse settimane.
“La pratica di non rilasciare il certificato fino a che non si vede il battito cardiaco fetale è anche una malpractice, una cattiva pratica dal punto di vista sanitario – spiega Anna Uglietti – tenendo conto che numerosi studi evidenziano che l’aborto farmacologico sembra più sicuro ed efficace proprio in età gestazionale precoce (ovvero quando la visualizzazione ecografica mostra solo il sacco gestazionario ma non ancora l’embrione”. Ovvero, spiega ancora Uglietti: “Nel caso – raro- in cui la donna abbia già deciso di interrompere la gravidanza e sia riuscita a raggiungere precocemente un consultorio o ambulatorio dedicato, non c’è alcun razionale scientifico che suggerisca di rinviare la somministrazione dei farmaci abortivi a dopo la comparsa all’ecografia del battito cardiaco fetale, il che si verifica di solito non prima della sesta settimana (cioè dopo 14 giorni di ritardo mestruale)”.
Certamente può accadere che durante l’ecografia, sia quella (indebitamente) richiesta per ottenere il cosiddetto “certificato”, sia quella che viene comunque fatta in ospedale o consultori attrezzati per datare la gravidanza, un medico o una medica particolarmente ideologizzato o ideologizzata inviti la donna ad osservare e ascoltare il battito fetale. Nell’esperienza di Roberta Lazzeri, molto attiva nel gruppo di auto-mutuo aiuto IVG spazio alle donne operativo sulla piattaforma Telegram, queste situazioni esistono ma sono rare. Nella maggioranza dei casi che hanno attraversato questo spazio, in realtà, il problema riscontrato in merito al fatidico “battito” è che, come abbiamo detto, la sua attesa dà luogo a una situazione paradossale, costringendo la donna a proseguire la gravidanza mentre hanno deciso di interromperla. A questo proposito Lazzeri riferisce una buona pratica: “Una donna ha scritto nel gruppo che al Consultorio di […], a Bologna, la dottoressa le ha spiegato tutto molto dettagliatamente e le ha fatto l’urgenza dicendo che lei parte dal presupposto che se una donna è lì è perché è convinta e non c’è bisogno di prolungare l’agonia”.
La bioeticista Caterina Botti ha diffusamente argomentato come, invece, la nostra cultura – fondamentalmente misogina – dia per scontata una deficienza nelle facoltà morali femminili. Come se, insomma, le donne non fossero veramente in grado di fare scelte morali. La strategia comunicativa del fronte anti-scelta lavora, d’altra parte, sulla messa in ombra di tali facoltà e sulla rappresentazione fisica dell’embrione/feto. Dobbiamo tutte e tutti vederlo e sentirlo, perché così possiamo rappresentarcelo come un bambino. Mentre, dal punto di vista della facoltà morale di una donna, un feto non può diventare un bambino se essa lo rifiuta come tale. Il tentativo di materializzare il feto come se fosse un bambino procede indefesso da almeno 2 decenni, ovvero da quando si è iniziato a discutere pubblicamente di procreazione medicalmente assistita. Attenzione a non cadere nella trappola.