Le persone effettivamente rimpatriate sono poche migliaia, tra quelle rinchiuse nei Cpr la media non arriva al 50 per cento. Con tutti i governi, con tutti i ministri dell'Interno. Ma nonostante il degrado e le violazioni dei diritti denunciate da parlamentari e associazioni, la Lega promette un centro in ogni regione. Il Garante dei detenuti: "Meccanismo di marginalità sociale, confino e sottrazione temporanea allo sguardo della collettività di persone che le Autorità non intendono includere, ma che al tempo stesso non riescono nemmeno ad allontanare"
Con centinaia di migliaia di stranieri senza permesso di soggiorno l’Italia non ne rimpatria che poche migliaia l’anno, chiunque sia il ministro dell’Interno in carica. Nel 2021 i Centri permanenti per il rimpatrio (Cpr) che ospitano irregolari in attesa di espulsione hanno visto transitare 5.147 persone, ma quelle effettivamente rimpatriate sono appena 2.520, meno della metà. In linea con gli anni precedenti, l’inefficacia ha però un prezzo elevato perché le persone richiuse nei Cpr vivono spesso in condizioni degradanti. In vent’anni non c’è una sola relazione che non abbia denunciato l’inadeguatezza di questi centri, a partire da quelle presentate al Parlamento dal Garante nazionale per i diritti dei detenuti, compresa quella del 2022. Ulteriore conferma arriva dall’ispezione della deputata Yana Ehm al Cpr di Gradisca d’Isonzo in Friuli Venezia Giulia, dopo il suicidio di un giovane pakistano lo scorso 31 agosto, l’ennesimo. “Io non reggerei nemmeno una settimana in quel posto”, racconta a ilfattoquotidiano.it la deputata della componente parlamentare ManifestA. Invece i tempi massimi di permanenza nei Cpr rischiano di raddoppiare, o almeno così promette il centrodestra in campagna elettorale, ripristinando i decreti sicurezza che sul fronte dell’efficacia dei centri e dei rimpatri non erano serviti a nulla se non a prolungare le sofferenze dei reclusi, compresi i tanti che in questi luoghi ci finiscono per errore.
Nei Cpr, gli ex Cie (centri di identificazione ed espulsione), il trattenimento è di tipo amministrativo. Non ci si finisce per aver commesso un reato, ma perché lo Stato ritiene di poter eseguire l’espulsione di una persona priva di regolare permesso di soggiorno, condizione che configura un illecito amministrativo. “Uno si attenderebbe situazioni diverse e migliori di quelle del carcere, dove c’è chi sconta una pena per aver commesso un reato”, ripete da anni Mauro Palma, presidente del Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà personale. Che invece continua a riscontrare il degrado dei Cpr e a richiamare l’attenzione sulla loro utilità. Che non regge il confronto coi numeri. Tra coloro che hanno lasciato un Cpr nel 2020 le persone effettivamente rimpatriate sono 2.232 su 4.387. Per la maggior parte – 1.856 rimpatri nel 2020 – si tratta di cittadini tunisini, in forza di un accordo tra governi. Seguono egiziani, albanesi e marocchini, rispettivamente con 63, 60 e 50 persone transitate dai Cpr e rimpatriate.
Nella sua relazione al Parlamento del 2021, il Garante ribadisce che la privazione della libertà delle persone trattenute nei Cpr deve essere “giustificata da una percorribile ipotesi di rimpatrio: ciò rende illegittima la restrizione della libertà quando non ci siano accordi con il Paese di destinazione che rendano questa ipotesi concretamente realizzabile”. Il rimpatrio è percorribile se c’è un accordo con i governi dei paesi d’origine. Oltre ai paesi già citati e alla Nigeria, di accordi non sembrano essercene altri e nonostante ogni campagna elettorale prometta di allargarne il numero – questa volta lo fanno Lega, Fratelli d’Italia e anche Carlo Calenda – le cose non sono mai cambiate. Gli accordi sono per lo più informali, non costituiscono fonte giuridica e il loro reale contenuto è ignoto. La conseguenza è che una persona su sei tra quelle che lasciano il Cpr esce perché l’Autorità giudiziaria non convalida o non rinnova il trattenimento (dati 2020).
Eppure si persevera e capita che l’Italia rinchiuda in un Cpr anche chi ha evacuato da Kabul perché minacciato dai Talebani che aveva combattuto. La storia è quella del 22enne Abdul, che dopo l’arrivo in Italia e il tentativo di raggiungere il fratello maggiore a Londra viene respinto dalla Francia. Tornato in Italia, a dicembre 2021 la polizia lo porta al Cpr di Gradisca d’Isonzo con tanto di espulsione notificata. Nessuno gli dice dove si trova e se non fosse per un cugino da anni in Italia Abdul sarebbe sparito dai radar. Racconterà di essere rimasto al chiuso per 26 giorni, di aver dormito in una stanza con altre 13 persone, di non aver ricevuto nemmeno un cambio di biancheria per 32 giorni e di non aver potuto lavare i suoi indumenti. Situazione ben lontana da quanto si legge sul sito del Parlamento, dove è ribadito che “in tali strutture lo straniero deve essere trattenuto con modalità tali da assicurare la necessaria assistenza ed il pieno rispetto della sua dignità“.
Il trattenimento di Abdul violava il divieto di espulsione del Testo unico sull’immigrazione come modificato nel 2020 dalla riforma dei decreti sicurezza. “Polizia di frontiera, questura, prefetture, giudice di pace: nessuno si è fatto una sola domanda”, commenta Gianfranco Schiavone, che in Friuli Venezia Giulia è presidente del Consorzio italiano di solidarietà (Ics) e nel 2007 fu tra gli esperti chiamati a lavorare alla commissione ministeriale su quelli che ai tempi si chiamavano Centri di permanenza temporanea. La commissione decretò l’inadeguatezza dei Cpt e delle tutele per i trattenuti. Dopo 15 anni non è cambiato niente. Nelle due ispezioni che nel 2020 e 2021 l’ormai ex senatore Gregorio De Falco (M5s e poi gruppo Misto) fece al Cpr di Milano emersero gravi violazioni dei diritti delle persone rinchiuse. “Lì dentro si vive in condizioni quasi da 41 bis e forse anche meno”, dichiarò De Falco. Tra i casi riferiti, quelli di problemi di salute lasciati senza cure, le difficoltà di accesso ai farmaci, l’abuso di psicofarmaci anche tra tossicodipendenti privati della necessaria terapia, la presenza di persone con problemi psichiatrici che mai avrebbero dovuto essere lì, oltre a carenze igieniche e alimentari.
Chi non ce la fa a resistere si ferisce, tenta il suicidio, si toglie la vita. Dalla loro istituzione, a fine 2021 si contavano 35 persone morte all’interno di un Cpr. Centinaia i tentativi di suicidio, quotidiani gli episodi di autolesionismo. Il 31 agosto nel centro di Gradisca d’Isonzo si è tolto la vita un ventenne pakistano. Il fatto ha spinto la parlamentare Ehm a visitare la struttura. “Ci sono andata per avere chiarezza, per capire come mai un ragazzo che si è suicidato a poche ore dal suo arrivo era stato considerato idoneo al trattenimento in un Cpr”, spiega la parlamentare, che ha voluto controllare se qualcosa fosse cambiato dopo la visita delle colleghe di ManifestA Doriana Sarli e Paola Nugnes lo scorso giugno. “Al contrario, la situazione è drammatica, sono rimasta sbalordita di fronte a gabbie vere e proprie, alle stanze che ospitano anche 12 persone con un solo bagno, un’unica doccia e un lavandino in pessime condizioni. Altri spazi non ne hanno, l’idea è quella di un luogo dove i diritti sono violati in maniera forte, indegni di un paese come il nostro”. Nella loro visita a sorpresa, prerogativa esclusiva dei parlamentari, Sarli e Nugnes registrarono addirittura l’assenza del presidio medico. Molti collegano le carenze anche a una gestione che, a differenza delle carceri, è affidata in appalto a privati, prevalentemente cooperative.
Ultimo e non ultimo, nei Cpr non ci finisce che l’uno per cento degli irregolari, da sempre. Una lotteria al contrario che tra i vincitori vede persone il cui rimpatrio non è praticabile, che hanno problemi di salute incompatibili con il trattenimento, ma anche persone in italia da decenni, che hanno perso il lavoro e quindi la possibilità di rinnovare il permesso di soggiorno, ma conservano relazioni sociali e affettive spesso non tenute in debita considerazione al momento di valutare il trattenimento. Una situazione che si spiega solo con quella che Schiavone chiama “totale arbitrarietà“. Con la ministra Lamorgese si è voluto dare priorità alle persone ritenute pericolose, a partire da quelle con precedenti penali. Un tentativo di giustificare i costosi e inefficienti Cpr? Di certo un paradosso. “Ho incontrato persone che arrivavano in un centro dopo 15 anni di carcere: in un tempo così lungo non è stato possibile preparare l’espulsione? La presenza di queste persone nei Cpr è la prova più evidente di un cortocircuito inutilmente inumano”, riflette Schiavone.
“In spregio ai fini per cui la privazione della libertà dei cittadini stranieri è prevista dai principi fondamentali dell’ordinamento, la detenzione amministrativa assume nella prassi prevalentemente i tratti di un meccanismo di marginalità sociale, confino e sottrazione temporanea allo sguardo della collettività di persone che le Autorità non intendono includere, ma che al tempo stesso non riescono nemmeno ad allontanare”, è il giudizio del Garante nazionale dei detenuti. Che non ha mancato di evidenziare come “l’ampliamento della rete dei Centri ha fatto segnare un’intensificazione nell’utilizzo del trattenimento amministrativo senza alcun superamento dei problemi che riguardavano le vecchie strutture, oggi replicati in quelle di recente apertura”. Sono parole che i nostri parlamentari hanno ascoltato, letto, di anno in anno. Eppure solo nei programmi di Unione Popolare e dell’Alleanza Verdi e Sinistra si chiede la chiusura dei Cpr. La Lega ne vuole di più, dai dieci attuali a uno ogni regione, come già chiedeva Minniti. E nonostante l’inutilità decretata dal numero dei rimpatri, Salvini e i suoi promettono di riportare il limite massimo dei trattenimenti da 90 a 180 giorni restaurando completamente i decreti sicurezza. Gli altri, da Giorgia Meloni a Forza Italia fino a Calenda promettono per l’ennesima volta nuovi accordi con i paesi d’origine, che intanto però rimangono sempre gli stessi da molti anni. Quanto agli altri partiti in corsa, le parole “rimpatri” e “Cpr” non compaiono nei loro programmi.