Fu tortura quella subita da Antonio Stano, 66enne di Manduria con disabilità psichica e vittima delle violenze di una baby gang deceduto per fame e stenti il 19 aprile 2018 a distanza di pochi giorni dall’ultima aggressione subita nella sua casa. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione che ha confermato e reso quindi definitive le condanne a 8 anni e 8 mesi per il 22enne Gregorio Lamusta e il 26enne Antonio Spadavecchia e a 7 anni e 4 mesi per il 22enne Vincenzo Mazza. I tre, riconosciuti colpevoli di tortura e altri reati, non sono considerati responsabili della morte dell’uomo.

Nei tre gradi di giudizio, infatti, i tre maggiorenni – difesi tra gli altri dagli avvocati Gaetano Vitale, Lorenzo Bullo, Franz Pesare e Armando Pasanisi – sono sempre stati assolti dall’accusa iniziale di omicidio come conseguenza delle violenze: la procura aveva inizialmente chiesto al condanna a 30 anni di reclusione, ma la difesa ha infatti dimostrato che la morte non è stata la conseguenza diretta dei traumi riportati dopo le ultime violenze subite dall’uomo. Stano, quindi, dopo quell’ultima violenza, decise di chiudersi in casa e lasciarsi morire pian piano. Lamusta, Spadavecchia e Mazza erano, all’epoca dei fatti, gli unici maggiorenni della cosiddetta “baby gang degli orfanelli” di cui avrebbero fatto parte anche sette minorenni. Dopo la pronuncia della Suprema corte, in cella potrebbero finire Spadavecchia e Lamusta: per loro, attualmente ai domiciliari, il residuo di pena è superiore ai 4 anni mentre Mazza deve finire di scontare una pena inferiore e la magistratura potrebbe optare per i domiciliari o per un’altra forma di condanna come i servizi sociali.

I fatti, come detto, risalgono al 2018 e vennero a galla solo dopo la morte dell’uomo. Le indagini dei carabinieri portarono alla luce le azioni della baby gang che per mesi aveva fatto irruzione in casa dell’uomo torturandolo, umiliandolo e sottraendogli piccole somme di denaro. Azioni che per la magistratura erano “espressione di un’indole malvagia e insensibile ad ogni richiamo umanitario”. Quelle spedizioni serali, quando Antonio Stano era solo nel suo appartamento, erano “aggressioni immotivate, contegni sguaiati, vessatori e prevaricatori che andavano oltre l’inflizione della sofferenza fisica avendo, invece, come scopo ulteriore quello di terrorizzare la vittima, di porla in una condizione di soggezione, di stranirla per alimentare il proprio divertimento”. Ma non era sufficiente: quelle azioni venivano filmate dagli smartphone e poi condivise nella chat che il gruppo aveva creato per commentare quella barbarie. Per il giudice è una sorta di “perversa soddisfazione” che si alimentava “facendo circolare i video e commentandoli compiaciuti”.

L’inchiesta però ha portato alla luce anche e soprattutto la situazione di estrema solitudine nella quale l’uomo, nonostante le sue difficili condizioni, viveva in “assenza totale di un legame affettivo in qualunque modo coltivato” senza familiari o parenti “che gli facessero visita neppure durante le festività”: per queste ragioni, già nel processo di primo grado il magistrato ha escluso la richiesta di risarcimento formulata da alcuni familiari che avevano chiesto di costituirsi parte civile. L’unica forma di vita sociale per Stano era “fare la spesa e salutare i vicini restando sull’uscio”, non aveva “neppure un telefono, cellulare o fisso, con cui contattare qualcuno nel caso di bisogno”. Per questo era diventato “la facile preda di un manipolo di ragazzini senza scrupoli”: oggi, per alcuni di loro, è arrivato il conto da pagare. È andata meglio, invece, ai minorenni coinvolti nell’inchiesta: già a luglio scorso cinque di loro sono tornati a casa dopo un lungo periodo di “messa alla prova” in una comunità. Gli altri due dovrebbero lasciare le comunità entro la fine di settembre. Le relazioni degli educatori hanno certificato un buon comportamento dei ragazzi durante la permanenza iniziata a luglio 2019.

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