Anche il noto filosofo e psicanalista Umberto Galimberti pare si sia unito alla numerosa schiera di coloro che denigrano la scuola pubblica italiana, e soprattutto i suoi insegnanti. Già qualche mese fa l’esponente di punta per la scuola di Confindustria, l’economista Andrea Gavosto, in un ennesimo intervento argomentava a suon di statistiche, lette a modo suo però, che gli insegnanti italiani non si dovevano lamentare dei loro bassi stipendi perché il loro carico di lavoro era inferiore a quello dei colleghi europei. Tesi non certo nuova e mille volte smentita dai fatti, come è stato ricostruito anche su questo blog. Poi il Parlamento ha messo del suo introducendo la fantasiosa figura del docente esperto, ora diventato docente stabilmente incentivato che potrà ricevere un aumento di stipendio ma dal 2032 (non è un errore di battitura), cioè tra dieci anni.
Ora anche i filosofi se la prendono con la scuola che non educherebbe alle emozioni. Ma non è questo il punto importante della conferenza di Galimberti al recente Festival Filosofia di Modena, piuttosto l’idea del tutto errata che il filosofo ha della scuola pubblica italiana. Galimberti ha affermato apoditticamente: “Sono per la scuola pubblica purché si possano licenziare gli insegnanti cattivi”. Se la frase è corretta, significa che il filosofo predilige in linea teorica la scuola privata, dove gli insegnanti vivono nel timore del licenziamento; solo che è almeno da 150 anni che l’istruzione è passata dalle élite privilegiate a tutti, e questo grazie alla scuola pubblica.
La parte finale poi, che la scuola privata sarebbe da preferire perché licenzia, è quasi un nonsense per chi conosce il mondo della scuola, totalmente smentita dai fatti. La scuola privata, anche quella paritaria, in Italia non è la scuola di eccellenza. E questo anche negli Usa: lo sanno gli studenti che si sono iscritti in massa ai Community College privati indebitandosi. In linea di fatto la scuola privata italiana serve un piccolo segmento della popolazione scolastica, suddivisa in due categorie. Un segmento è superiore per reddito, perché come sosteneva già un secolo fa l’economista e sociologo Thorstein Veblen c’è sempre qualcuno che ama distinguersi attraverso il consumo di beni dispendiosi, e una scuola privata con una robusta retta (diciamo bocconiana) fa allo scopo. Poi c’è un altro segmento, quello del recupero scolastico – chiamiamolo così. In nessun caso possiamo dire che la scuola privata sia la scuola migliore. Basta guardare ai dati Invalsi. Quasi mai troviamo in cima alla graduatoria istituti privati o parificati. Forse sarà il caso di guardare alla realtà oltre che a leggere Platone. La ragione è chiara: quando lo studente diviene un cliente vi è un incentivo per la singola scuola ad avere un comportamento opportunistico. Naturalmente ci sono delle eccezioni. Non tutte le scuole private sono esamifici, e non tutte le scuole pubbliche sono di buona qualità.
Poi il filosofo si spinge sul terreno assai infido e accidentato del liberismo economico in campo scolastico. Continua Galimberti: “Introduciamo il licenziamento dei cattivi insegnanti, o gli studenti più fortunati andranno all’estero, mentre i peggiori resteranno qui, a prendere il reddito di cittadinanza”. Posso essere, e anzi lo sono, d’accordo con il filosofo – e chi non lo sarebbe – che i docenti impreparati e inadatti andrebbero licenziati. Ma mi chiedo perché quando si parla dei docenti si parta sempre dalle punizioni e mai dai premi. Qui Galimberti potrebbe offrirci uno spunto psicanalitico. Con un autentico spirito aziendale di tipo arditamente meritocratico, che Galimberti sembra evocare, bisognerebbe prima indicare i premi per i più bravi, e poi le punizioni per gli infingardi. Nei corsi di economia si insegna questo e ogni imprenditore lo sa bene. Invece nella scuola si ragiona in maniera del tutto unilaterale minacciando solo licenziamenti, forse perché l’insegnamento è ritenuto già un premio in sé.
Poi la vocazione liberista del filosofo junghiano vola verso l’alto. A suo avviso, gli studenti migliori (ma quali?), insoddisfatti della scuola italiana, non si sa se pubblica o privata, andrebbero all’estero e i peggiori rimarrebbero qui a lucrare il reddito di cittadinanza. Anche Galimberti cade nella favola neoliberista secondo la quale molti menti brillanti abbandonerebbero l’Italia perché totalmente insoddisfatte del nostro livello di istruzione, quello pubblico naturalmente. È vero invece il contrario, molti nostri laureati si piazzano bene in Europa e nel mondo perché hanno una preparazione di primario livello. È poi, purtroppo, il mondo produttivo che non li vuole valorizzare a differenza delle altre economie sviluppate e dunque emigrano. Prendere poi, per un certo periodo e in determinate condizioni, il salario di cittadinanza non è una colpa o una vergogna, come vorrebbero i liberisti italiani filosofi o no, e nemmeno una violazione delle leggi naturali dell’economia, ma semplicemente un atto di civiltà economica che è stato introdotto in molti Paesi. Naturalmente la sua applicazione può migliorare.
In definitiva il filosofo è caduto in un tranello neoliberista. È stato male informato, almeno per quanto riguarda l’economia dell’istruzione, e per questo è arrivato a conclusioni certamente non all’altezza della sua fama. Ha maturato un’idea del tutto sbagliata della scuola italiana, sia nella parte pubblica, che sarebbe scadente, che nella piccola parte privata, che sarebbe eccellente. Vuole una scuola che punisca, ma non premi. Pensa che un mondo regolato dalla paura di perdere il posto di lavoro produca chissà quale risultato di eccellenza. La scuola della paura è la scuola del conformismo e del servilismo che nessuno vorrebbe mai. Insomma, anche il filosofo non è sfuggito ai più tristi e sbagliati luoghi comuni.
Come capita spesso, se non si conosce bene l’argomento conviene tacere. La scuola non ha bisogno dei consigli del filosofo passato al neoliberismo, per questi basta e avanza la schiera non piccola degli economisti vicini a Confindustria, educati naturalmente in Uk o Usa.