di Andrea Agapito Ludovici*
I tragici fatti di questi giorni che hanno colpito le Marche hanno riportato l’attenzione sul cambiamento climatico in atto e sulla estrema vulnerabilità del nostro territorio, martoriato per decenni da una cattiva gestione. Siamo improvvisamente passati dall’emergenza siccità a quella alluvioni. Gli oltre 400 millimetri di pioggia caduti su quella regione in poche ore ci hanno fatto dimenticare la siccità peggiore degli ultimi 70 anni. Ma questa altalena tra fenomeni estremi rispecchia la prevista evoluzione del cambiamento climatico nella regione mediterranea, che è e sarà interessata da sempre più lunghe ondate di calore alternate da precipitazioni intense, concentrate in poco tempo.
Ma siamo preparati a gestire questa spesso tragica giostra di eventi? La risposta per ora è ‘no’ e con un paradosso: il territorio non riesce nemmeno a trarre beneficio da queste piogge perché incapace, tanto è ‘impermeabilizzato’, di assorbire adeguatamente l’acqua e ricaricare le falde. Ma non possiamo dare la colpa di ciò che è successo al solo cambiamento climatico. Negli ultimi anni abbiamo fatto di tutto per costruire una ‘tempesta perfetta’ canalizzando in maniera eccessiva gli alvei fluviali e consumando letteralmente il suolo. Negli ultimi 50 anni circa 2000 kmq di aree di esondazione naturali hanno subito varie forme di urbanizzazione con trasformazioni più intense lungo le sponde dei fiumi di secondo ordine, dal 3,56% al 25,7%. In ogni regione abbiamo costretto i corsi d’acqua in alvei ristretti e ridotte le zone di esondazione naturale, ormai totalmente insufficienti a contenere le piene. Il consumo di suolo non si è mai fermato, come evidenziato anche dall’Ispra: entro i 150 metri dai corpi idrici a livello nazionale abbiamo consumato l’8,3% di suolo, un dato salito tra il 2020 e il 2021 dello 0,27%.
Si è detto che una delle cause del disastro è la mancanza di “pulizia dei fiumi”. Questo non è del tutto vero sostanzialmente per due motivi. Innanzitutto il bacino del Misa, piccolo e stretto, è molto sensibile e vulnerabile a questi eventi e, come è accaduto per gran parte del reticolo idrografico minore, non è stato gestito adeguatamente. Ma anche se l’alveo fosse stato pulitissimo la quantità d’acqua rovesciata in così poco tempo su quei territori sarebbe comunque esondata. Il secondo motivo risiede nella modalità con cui si realizza la cosiddetta “manutenzione idraulica” dei fiumi: questa è legata al meccanismo perverso della convenienza economica che favorisce principalmente interventi capaci di “autofinanziarsi” attraverso, ad esempio, la vendita del materiale estratto (sabbie o ghiaie) dagli alvei o legna nel caso del taglio degli alberi dalle sponde. A volte sovrastimano gli interventi, pulendo le aree dove il materiale lapideo è migliore (e non è detto che sia quello effettivamente utile per ridurre il rischio), oppure tagliando alberi in buono stato (legna migliore) lasciando quelli deperenti o non toccando rami e tronchi accumulati lungo fiume perché senza valore, sebbene siano quelli a creare problemi.
La risposta agli effetti del cambiamento climatico si è trascinata fin qui un lungo elenco di errori: distruzione degli ambienti ripariali, aumento della capacità erosiva sulle sponde, alterazione dell’equilibrio del trasporto solido e, spesso, aumento del rischio idrogeologico e perdita di servizi ecosistemici. Tornando al fiume Misa, è difficile comprendere come opere previste da decine di anni, come le casse di laminazione nord del Misa, che avrebbero potuto ridurre drasticamente il rischio idrogeologico, con risorse economiche disponibili fin dal 2014, non siano state realizzate. Non è servito l’evento disastroso del 2014 per smuovere le istituzioni a provvedere. L’area è stata identificata dalla regione Marche a rischio idrogeologico molto elevato (R4) nel Piano di assetto idrogeologico regionale. Eppure parte degli abitati ricadono nelle aree a maggior rischio idrogeologico e c’è da chiedersi perché, di chi è la responsabilità? Chi ha permesso e permette ancora tutto questo?
Altre 11 persone hanno perso la vita inutilmente e, nonostante le indagini, c’è il rischio che anche questa volta non pagherà nessuno e si continuerà a non fare ciò di cui abbiamo bisogno. Il Wwf ha invocato più volte la necessità di una regia unitaria in capo alle Autorità di distretto che dovrebbe coordinare, pianificare, programmare e attuare le azioni prioritarie nel bacino idrografico e, eventualmente, esercitare poteri sostitutivi quando gli enti locali si rivelano inefficienti. Al livello nazionale, la politica di adattamento ai cambiamenti climatici, ancora mai avviata realmente, deve promuovere una diffusa rinaturalizzazione capace di ‘liberare’ lo spazio dei fiumi, recuperando gli indispensabili servizi ecosistemici capaci di rispondere ai prolungati periodi di siccità e alle precipitazioni intense. Il Piano Nazionale di adattamento ai Cambiamenti Climatici è fermo dal 2017 e dovrebbe finalmente essere approvato e reso operativo.
Infine, dobbiamo dare seguito agli impegni presi in sede internazionale, iniziando ad applicare a pieno le direttive quadro Acque (2000/60/CE) e Alluvioni (2007/60/CE) e la Strategia Europea per la biodiversità che prevede che vengano riqualificati, recuperandone la continuità ecologica, 25000 km di fiumi in Europa.
*Responsabile Acque e Progetti sul territorio del WWF Italia